giovedì 30 novembre 2017

A Palencia (Vita di San Manuel González, 8)

   Seppur con dolore lasciò la guida dell’amata diocesi di Málaga e accettò con obbedienza e umiltà la nuova destinazione che il Papa gli aveva indicato. Non fu facile per lui distaccarsi da anni e anni di intensa attività pastorale svolta negli ambienti familiari della sua Andalusia. Sempre però con l’atteggiamento di grande abbandono alla volontà di Dio che si manifesta nei superiori, accettò il sacrificio e si donò interamente per la nuova diocesi. La situazione che trovò non fu certamente semplice. Le tracce della Guerra civile erano ancora vive in quella città della Castiglia e León. Palencia era in quel momento sotto il controllo repubblicano e la Chiesa non era vista di buon occhio. Bisognava fare attenzione a come muoversi. Basti ricordare che nel giugno 1936 vennero proibite le processioni pubbliche, così quella nella solennità del Corpus Domini si svolse all’interno della cattedrale. Per un periodo i suoi seminaristi vennero chiamati a prestare servizio militare, un fatto che destò molta preoccupazione nel santo. Tuttavia, non li abbandonò mai e si tenne in contatto costante per via epistolare. Quando il 19 settembre 1936 i seminaristi rientrarono dalle vacanze estive, il seminario che trovarono era uno dei pochi sopravvissuti alla chiusura. Accolse così  seminaristi di altre diocesi e perfino un gruppetto proveniente da Málaga. Come nella città andalusa, anche a Palencia non mancarono le difficoltà e le opposizioni, ma il santo non era tipo da lasciarsi scoraggiare. La sua carità verso gli altri si rivelò feconda di opere: aiutò non pochi sacerdoti poveri e pagò le rette ai seminaristi che non avevano la possibilità di mantenersi gli studi. 
   Il clima sociale purtroppo si manteneva sempre teso, pesava il conflitto tra nazionalisti e repubblicani. Un giorno, mentre tornava con il treno dalla settimana pro seminario che si svolse a Toledo, una grossa pietra lanciata da mano violenta, entrò nel vagone e lo colpì sul pettorale senza arrecargli danno. Il 19 giugno 1936, scoppiarono tumulti e scontri tra repubblicani e militari e guardia civile. In quei giorni trovò la morte il governatore repubblicano, ma anche molti cattolici vennero trucidati. Il santo invitò tutti i fedeli a supplicare la Vergine Maria attraverso la preghiera del Rosario, perché concedesse pace  e riconciliazione alla Spagna. Il 24 gennaio 1937, nella festa di Nostra Signora della pace, invitò tutti i bambini a supplicare il Cuore di Gesù e di Maria per ottenere pace alla nazione.  
   In quel periodo vennero compiuti alcuni furti sacrileghi in varie parrocchie della diocesi e a distanza poco tempo l’uno dall’altro: a Soto de Cerrato, a Monzón de Campos, a Reinoso de Cerrato e a Prádanos de Ojeda. In risposta a questi atti, promosse ovunque il culto eucaristico e la devozione al Cuore di Cristo. Organizzò le adorazioni notturne, le settimane eucaristiche, le preghiere di riparazione, invitò alla comunione frequente e dette impulso alla catechesi. Cercò di riavvicinare i fedeli alla pratica dei Sacramenti e a rendere la loro fede più adulta. Iniziò la visita pastorale nelle varie parrocchie della diocesi, nonostante i pericoli e il momento di grande incertezza sociale e politica. Non temeva per la sua vita, ma voleva assolutamente confermare la fede della gente in quel momento difficile. Non si risparmiò fatiche e disagi per raggiungere quante più parrocchie possibile e inviò anche dei missionari a predicare nei villaggi più sperduti.  
   Nel marzo 1936 aprì una casa di Nazaret a Palencia e istituì in diocesi anche i discepoli di san Giovanni. In quella casa trasferì il noviziato, dato che a Málaga la situazione sociale era ancora drammatica. Infatti, la presidente delle Marie, Carmen López de Heredia, venne assassinata. Con questa morte, anche le Marie avevano dato il contributo di sangue per la pacificazione della Spagna e per l’avvento del Regno di Dio. L’8 settembre seguente, emise il decreto di approvazione degli statuti, del direttorio e del governo della fraternità delle Marie nazarene. Palencia diventò il punto di riferimento per le consacrate sparse nei vari Nazaret di Spagna che andavano diffondendosi. Nel 1937 radunò i bambini riparatori. 
   Nel settembre 1939, fece gli esercizi spirituali insieme con il clero. Sarebbero stati gli ultimi, perché la malattia stava minando definitivamente la sua salute. Il 28 ottobre 1939, compì un viaggio a Saragozza per visitare le suore nazarene  che erano state chiamate in diocesi dal maggio precedente. Approfittò per recarsi in pellegrinaggio  al santuario caro a tutti gli spagnoli: la Vergine del Pilar, che lui considerava sua particolare protettrice. Al ritorno si fermò a Madrid per rappresentare l’arcivescovo di Burgos nella Conferenza episcopale dei metropolitani. Il 13 novembre rientrò a Palencia, dove i dolori alla testa si intensificarono. Riusciva ormai solo a celebrare la messa e nemmeno poteva farlo tutti i giorni. Anche le visite al tabernacolo nella cappella gli costavano grandi sforzi. Da quel momento in poi dovette far fronte al peggioramento dello stato di salute. Fin da giovane aveva sofferto di colite acuta e cronica e, soprattutto, come sappiamo, di forti emicranie che talvolta lo obbligavano a interrompere anche quello che stava facendo. A volte doveva scrivere in ginocchio a causa dei forti dolori alla testa. Nell’età avanzata gli si presentò anche un’affezione alla vescica: una nefrite cronica e un’ipertrofia prostatica. 
   Negli ultimi mesi della sua vita la sofferenza aumentò notevolmente, soprattutto a causa del mal di testa. Ripeteva sempre il suo Fiat! Sicuro e fiducioso nella Provvidenza divina, alla quale si era abbandonato. In quel periodo intensificò la preghiera, sostando in cappella più a lungo per adorare il Santissimo Sacramento e recitare il Rosario. Negli ultimi giorni, in cui le forze stavano diminuendo rapidamente, disse a chi lo circondava: «Sono stato più di là che di qua e ho visto che quello che importa, è la santità, perciò «si deve sacrificare tutto alla volontà del Signore». Al termine della sua vita sentiva pressante l’invito di Cristo a donarsi interamente, a lasciare ogni minimo affetto o attaccamento e a preparasi all’incontro definitivo con Lui. Davanti al Santissimo Sacramento prima di uscire definitivamente dal palazzo episcopale disse: «Cuore di Gesù, ti rendo grazie per tanti dolori che mi dai; grazie per quello che mi hai fatto soffrire. Benedetto sia per tutto e perché ora vuoi che me ne vada». E poi in un momento di grande abbandono e di sofferenza, aggiunse: «Sono tuo, fai di me quello che vuoi». 
   Il 28 novembre, ricevette il Sacramento degli infermi, la comunione e l’assoluzione generale. Ripresosi un poco, il 31 seguente, venne deciso di trasferirlo in ambulanza a Madrid per ricoverarlo nella clinica del Rosario. Nel viaggio verso la capitale, recitò il Rosario e volle che lo avvertissero quando l’ambulanza passava davanti a una chiesa. Così avrebbe potuto salutare e onorare Gesù presente nei tabernacoli. Giunto alla clinica, la prima cosa che chiese, fu quella di essere accompagnato in cappella. Dopo una prima visita, i medici capirono che non c’era più niente da fare e che, purtroppo, non era possibile operarlo. Poco dopo, ricevette la visita del nunzio apostolico. Poi, celebrò la messa nella sua stanza e dopo aver recitato il Magnificat, morì serenamente. Era mezzogiorno del 4 gennaio 1940. 
   Il giorno successivo, la sua salma venne trasferita a Palencia. Il 6 gennaio 1940, un gruppo di Missionarie Eucaristiche di Nazaret fece la professione perpetua davanti al corpo del fondatore. Il 7 gennaio, venne inumato nella cappella del Santissimo Sacramento della cattedrale. Sulla tomba fu posta una lapide con l’epitaffio scritto da lui stesso: «Chiedo di essere inumato accanto a un tabernacolo, perché le mie ossa, dopo la morte, come la mia lingua e la mia penna in vita, dicano sempre a chi passa: Qui c’è Gesù! Qui c’è! Non abbandonatelo! Madre Immacolata, san Giovanni, sante Marie, portate la mia anima alla compagnia eterna del Cuore di Gesù in cielo». 
   La morte non cancellò il ricordo di don Manuel, anzi, la sua fama di santità cominciò a diffondersi e ad aumentare sempre più. Già da tempo, molta gente si rivolgeva a lui per chiedere consigli e farsi guidare spiritualmente, perché era convinta di trovarsi di fronte a un santo. Alcuni raccontavano che egli aveva il dono di leggere i segreti delle anime. Già al tempo in cui era sacerdote, ma ancor di più, una volta diventato vescovo, la stima e il rispetto nei suoi confronti, facevano sì che molte persone ricevendo sue lettere le conservassero come una reliquia. Lo stesso avvenne durante l’ultimo periodo della sua malattia, quando era infermo a letto e nella clinica di Madrid. Infatti, quanti lo circondavano presero dei pezzetti del suo abito episcopale e passarono delle medaglie e degli oggetti sul suo corpo, per poi conservarli come reliquie.  
   La scena si ripeté durante l’esposizione della salma nella cappella del palazzo episcopale di Palencia. La sua fama non si era mantenuta viva solo tra le sue figlie, ma si era diffusa tra il popolo di Dio in tutti quei luoghi che avevano visto la presenza del santo. A poco a poco, le visite e i pellegrinaggi alla tomba di don Manuel si moltiplicarono. Infatti, egli era ben conosciuto non solo nelle diocesi che aveva guidato, ma anche in molte regioni della Spagna. Ciò si deve anche alla diffusione dei suoi libri che si trovavano in vendita in diversi Paesi  europei, ma anche in America Latina. 
   Visto il perdurare della fama di santità, nel 1952 venne aperto a Palencia il processo ordinario, che si concluse nel 1960. Vennero interrogati 18 testimoni oculari, dei quali nove Missionarie Eucaristiche di Nazaret, cinque sacerdoti, un medico, un architetto, e due notai. Furono anche aperti quattro processi rogatoriali: a Huelva, dove furono ascoltati 13 testimoni, a Siviglia con 16 testimoni, a Madrid con 6 testimoni e a Málaga con 30 testi. Seguì un processo conoscitivo a Palencia, negli anni 1981-1983, dove deposero 27 persone riguardo l’eventuale mancanza di carità e di prudenza, in quanto si doveva chiarire il suo rapporto con i sacerdoti baschi imprigionati dal generale Franco nella Trappa di San Isidro de Dueña, negli anni 1938-1939. Concluso con esito positivo il procedimento, gli atti vennero inviati a Roma alla Congregazione delle Cause dei Santi, la quale, il 13 luglio 1984, emise il decreto di validità dei processi.  Da allora in poi, l’iter fu più spedito: il 6 aprile 1998, Giovanni Paolo II lo dichiarò venerabile, e il 29 aprile 2001, lo beatificò. 
   Nel 2008 a Madrid, avvenne un presunto miracolo per intercessione di don Manuel. Si trattava della guarigione da «linfoma non-Hodgkin (LNH), plasmoblastico, con restrizione IgA lambda, monoclonale». Il 31 maggio 2010 venne aperta a Madrid l’inchiesta diocesana sul miracolo che si concluse positivamente. Il 29 ottobre 2015, la Consulta Medica della Congregazione delle Cause dei Santi, riconobbe all’unanimità l’inspiegabilità scientifica della guarigione; il 15 dicembre 2015 la Consulta dei teologi diede voto affermativo, e lo stesso fanno i cardinali e i vescovi il 1° marzo 2016. Il 3 marzo successivo, Papa Francesco firmò il decreto di approvazione del miracolo. Il XXXX Papa Francesco lo canonizzò in piazza San Pietro.


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 103-109)

mercoledì 29 novembre 2017

In esilio (Vita di San Manuel González, 7)

   Purtroppo, la situazione politica e sociale si faceva sempre più ostile alla Chiesa cattolica. Il 14 aprile 1931 venne proclamata la repubblica e quelle che fino ad allora erano state solo minacce e calunnie si trasformarono in azioni di odio concrete.  Già dai giorni precedenti l’avvento della repubblica, don Manuel aveva chiesto ai suoi collaboratori di pregare molto, perché la situazione a Málaga stava degenerando. Cercò di mettere in salvo gli oggetti sacri più preziosi dell’episcopio e incoraggiò i suoi sacerdoti ad affrontare la prova che li attendeva. Era ormai sicuro che qualcosa sarebbe successo. Nella notte dell’11 maggio i timori si rivelarono fondati. La folla inferocita prese d’assalto chiese e conventi, dandoli alle fiamme. In breve tempo, si diresse verso il palazzo episcopale e lo circondò cercando di sfondarne le porte. Don Manuel con sua sorella, i suoi collaboratori e le suore della Croce, che aveva chiamato da Huelva per aiutarlo e accudirlo nelle faccende quotidiane, iniziarono a recitare il Rosario. Momenti di grande paura e di concitazione per quanti erano rimasti nel palazzo. Il pericolo di venire trucidati era concreto. 
   Il santo, tuttavia, non perse la serenità. Impartì  l’assoluzione generale a tutti i presenti, li comunicò, e per non lasciare il Santissimo Sacramento in balia dei facinorosi, inghiottì tutte le ostie consacrate rimaste. Si rivolse poi a quanti lo circondavano e chiese loro di offrire quei momenti di sofferenza per l’avvento del regno del Cuore di Gesù in Spagna e nella diocesi di Málaga. Attraverso una porta segreta si rifugiarono nell’attiguo collegio dei religiosi maristi. Questo espediente però non fermò la folla che irruppe sia nell’episcopio, sia nel collegio al grido di «muoia, muoia». Cercavano lui, il responsabile, secondo loro, di chissà quali delitti. L’unica sua colpa era di essere il pastore di quella Chiesa locale. Agli occhi dei sovversivi rappresentava il nemico da abbattere. 
   Don Manuel con grande coraggio si presentò davanti a quei facinorosi e chiese cosa volessero da lui. Le loro intenzioni non era delle più amichevoli, qualcuno aveva portato addirittura una corda per impiccarlo.  Insulti e offese facevano da cornice a quella scena così drammatica, ma il santo cominciò a camminare verso l’uscita del collegio e si fece strada in mezzo alla folla urlante. Lo seguivano le suore della Croce e i suoi collaboratori, che rimasero inorriditi dal vedere il palazzo vescovile completamente dato alle fiamme. Passò tra le gente che lo strattonava da ogni parte e qualcuno cercò anche di togliergli lo zucchetto. Un uomo si mise davanti a lui e gli puntò perfino la pistola, dicendogli che non avrebbe sparato solo per timore di uccidere sua sorella. Superato il momento critico e nonostante il pericolo, don Manuel riuscì a raggiungere la casa di don Antonio Rodríguez Ferrol. Appena entrato in casa, la prima cosa che fece fu quella di invitare tutti a recitare il Rosario. A chi gli diceva impaurito che tutto era perduto, rispondeva di guardare alla grazia di Dio che nessuno avrebbe potuto sottrarre loro. Anzi, in quella circostanza, erano ancor di più simili gli apostoli, senza mezzi, ma pieni di fiducia in Dio. Mancava solo il martirio per suggellare l’imitazione degli apostoli. Poco mancò che non si realizzasse. Infatti, la tregua in quella casa durò molto poco. 
   All’alba si presentò un capo dei repubblicani che impose al santo di andarsene da lì. Don Manuel rispose di non aver commesso nessun crimine e che il suo unico desiderio era di rimanere a Málaga per guidare la diocesi a lui affidata. Temeva però per l’incolumità dei padroni di casa e stava cercando una via d’uscita alla situazione. Nel frattempo, giunsero i signori di Heredia, suoi amici, che per salvarlo dal linciaggio lo fecero salire sull’auto e lo condussero alla loro fattoria «La Vizcaina». Don Manuel sperimentò un attimo di tregua e poté celebrare la messa. Ma la pace sarebbe durata molto poco, infatti, il 13 maggio, i contadini inferociti circondarono l’abitazione e dettero un’ora di tempo a don Manuel per andarsene. Se non avesse rispettato l’ultimatum avrebbero incendiato tutto. Possiamo immaginare la sofferenza del santo che vedeva la sua presenza recare danno agli amici che l’ospitavano. Decise così di abbandonare quell’alloggio e, alle cinque del pomeriggio, si diresse verso una famiglia che abitava in campagna. Purtroppo, i padroni di quella fattoria non vollero si fermasse per paura di rappresaglie. Occorreva trovare una rapida soluzione perché i sobillatori non si sarebbero certamente arresi al pensiero che il vescovo rimanesse nel territorio diocesano, in quanto temevano la sua presenza. Allora, qualcuno pensò di far rifugiare il vescovo a Gibilterra, in territorio britannico, dove nessuno avrebbe potuto toccarlo. I marchesi di Larios si impegnarono a cercargli un albergo, mentre veniva preparato il passaporto e avvisato il vescovo di Gibilterra. A mezzanotte, don Manuel riuscì a passare la frontiera, dove lo attendeva monsignor Richard Joseph Fitzgerald (1881-1956), al quale consegnò l’ostia consacrata che conservava in una teca. Per il momento, era salvo al di là del confine spagnolo, ma il suo cuore era rimasto a Málaga. Il giorno successivo, poté celebrare la messa nella cattedrale. Venne poi ospitato nella casa di riposo «Gavino» della città.  
   Si trattava ora di gestire da lontano il governo pastorale della diocesi, cosa non facile. Don Manuel sapeva che la situazione non si sarebbe normalizzata velocemente, così incaricò il vicario generale di provvedervi fino al suo ritorno. Quel periodo fu fonte di grande sofferenza e sacrificio, in quanto era costretto a rimanere separato dai suoi sacerdoti e dal suo gregge. Purtroppo, il clima politico e sociale gli impediva di rientrare, perché sia il governo, sia le autorità locali non gradivano la sua presenza a Málaga. Anche la nunziatura lo invitò ad avere pazienza e a rimanere a Gibilterra ancora un po’. Il santo obbedì anche se a fatica, perché sentiva fortemente lo zelo per il gregge affidato, e questa sua impossibilità a occuparsene lo faceva tribolare enormemente. Tuttavia, pur non temendo per la sua vita, non voleva mettere a repentaglio quella degli altri che lo circondavano. Il suo esilio forzato sulla rocca di Gibilterra durò sette mesi, nei quali riuscì anche a ordinare sette sacerdoti del suo seminario che si erano spostati sul suolo inglese appositamente per ricevere il sacerdozio dalle mani del loro vescovo.
   Dopo varie trattative diplomatiche, nel dicembre 1931, gli venne prospettata la possibilità di trasferirsi a Ronda, cittadina che si trovava in diocesi di Málaga. Il 14 del mese, scrisse al nunzio apostolico Federico Tedeschini (18731959) per esprimergli il suo dolore e la sua fedeltà alla Chiesa. Il 26 seguente, passò a Ronda, dove rimase sette mesi, controllato continuamente dalla polizia. Venne ospitato nella palazzina che apparteneva all’episcopio, e che era unita al collegio dei salesiani. In quella cittadina, riuscì a insegnare il catechismo e a tenere delle conferenze. Molto discretamente organizzò anche un’Accademia di catechisti. 
   Il 29 luglio 1932 compì un viaggio a Madrid per incontrare il nunzio apostolico, il quale, al contrario di quello che sperava, lo invitò a non rientrare a Málaga, ma a continuare a guidare la diocesi da Ronda. Evidentemente, i tempi non erano ancora maturi e la sua presenza sarebbe stata motivo di nuovi conflitti. Era un vero pastore e quindi la sua testimonianza disturbava quanti volevano ridurre la Chiesa ai margini della società, i quali non avrebbero esitato a ridurlo al silenzio. Tuttavia, il santo non si arrese e mesi dopo visitò di nuovo il nunzio apostolico a San Sebastián, con la speranza che potesse intervenire presso le autorità locali per permettere il suo rientro. Il 4 ottobre partì per Roma, dove venne ricevuto in udienza  da Pio XI. Rientrato in Spagna, si rese conto che anche a Ronda la situazione era sempre più delicata. Non volendo recar problemi a chi l’ospitava, si trasferì a Madrid, accolto dalla famiglia Calonge y Page, che gli offrì un appartamento indipendente. Per il momento doveva rimanere nella capitale, perché il nunzio apostolico gli riconfermò l’impossibilità di tornare a Málaga. La sua situazione era drammatica: era solo,  lontano dalla sua diocesi, costretto a vivere di elemosina, perché non aveva nessuna rendita, eccetto i proventi dalla vendita dei suoi libri che però non gli permettevano di vivere dignitosamente. Fortunatamente, alcuni suoi amici ed estimatori gli inviavano regolarmente delle offerte. Poco tempo dopo, ricevette una lettera del cardinale Eugenio Pacelli (1876-1958), segretario di Stato, che gli spiegò i motivi per i quali non poteva rientrare in diocesi: le minacce nei suoi confronti e l’impossibilità delle autorità locali di poter garantire la sua sicurezza. Lo invitò pertanto a rimanere a Madrid nonostante i disagi. Che non erano pochi! 
   In quel periodo, un’altra prova si abbatté su di lui: la situazione delle Marie in Madrid, che erano state affidate alle cure del beato padre Rubio, il quale era morto nel 1929. Aveva preso la loro direzione il gesuita padre Cuadrado, il quale cercava di allontanarle dal santo, perché non voleva interferisse nel governo. Tuttavia, le Marie non si fecero troppo condizionare e il 4 marzo 1935, poterono celebrare l’anniversario della loro fondazione con don Manuel, il quale firmò l’atto di erezione della fraternità della Marie nazarene. 
   Intanto, il nunzio apostolico aveva chiaro che ormai il santo non sarebbe potuto più rientrare a Málaga, così fece pressioni, perché rinunciasse al governo della diocesi e ne scegliesse un’altra, fosse stata anche sede arcivescovile. Trovò però l’opposizione di don Manuel che voleva tornare nella sua città. Non era facile per lui distaccarsi dalla gente e da quell’ambiente dove aveva realizzato tante opere. Il 31 marzo 1935, il nunzio apostolico tornò nuovamente alla carica e gli scrisse per ricordagli che durante la visita a Roma dell’aprile 1934, in occasione della canonizzazione di san Giovanni Bosco, incontrando Pio XI aveva dato al Papa la sua disponibilità a guidare un’altra diocesi. La situazione che si era creata ormai era irreversibile. Il 4 luglio successivo, monsignor Tedeschini lo informò che per volontà del Pontefice era definitivamente sollevato dal governo pastorale della diocesi di Málaga e che gli lasciavano la possibilità di indicare un’alternativa a sua scelta. Il giorno seguente, dopo aver riflettuto e pregato, domandò al nunzio apostolico la possibilità di recarsi a Palencia, che considerava una diocesi piccola e ben disposta nei confronti della Chiesa. Tuttavia, si dichiarava disponibile ad andare in qualunque posto il Papa lo ritenesse opportuno. Il 9 luglio, monsignor Tedeschini scrisse al cardinale Pacelli che poteva procedere alla nomina di don Manuel a vescovo di Palencia. Il 5 agosto 1935, Pio XI rese pubblica la nomina di don Manuel a vescovo di Palencia. Il 6 ottobre, seguì il corso di esercizi spirituali nella Trappa di Dueñas, situata nel territorio della sua nuova diocesi. Terminati gli esercizi spirituali, il 12 successivo, fece il suo ingresso a Palencia. 



(Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 53-57)

lunedì 27 novembre 2017

Sulle orme di San Paolo (Vita di San Manuel González, 6)

   Il suo più grande desiderio era di vivere il Vangelo e tradurlo in opere nel suo ministero episcopale. Per far giungere la voce di Cristo e della Chiesa scrisse varie lettere pastorali e numerosi libri di facile comprensione per il popolo. La sua produzione letteraria fu notevole, visto che iniziò ben presto a scrivere, nel 1907. Diceva che tra i tre profumi preferiti, uno era quello dell’inchiostro da stampa. Il suo obiettivo principale era di diffondere la dottrina cristiana e lo faceva appoggiandosi alla Sacra Scrittura, al Magistero della Chiesa e alla liturgia. Ciò è evidente nei suoi scritti, in quanto non vi sono molti riferimenti estranei a questi documenti. Leggendo le sue opere troviamo narrata la sua esperienza con Dio e svelata la sua più intima natura. Infatti, descriveva quello che avveniva nella sua anima, rivelando un forte vincolo con Dio che fa di lui un vero mistico. I temi che più ricorrono sono l’Eucaristia, la Vergine Maria e la fedeltà alla Chiesa. Il suo intento è quello di avvicinare le anime ai misteri della fede, incitandole alla perseveranza, alla fedeltà, alla pratica della vita cristiana. E’ proprio per questo che il suo linguaggio è semplice perché tutti lo comprendano. Spazia dai temi apostolici ai temi sociali, da quelli spirituali alla pratica religiosa di ogni giorno. Prima di dare alle stampe i suoi libri li faceva rivedere e approvare dalla Congregazione dei Riti. Egli, infatti, voleva essere apostolo della buona stampa, ancorato alla verità, sullo stile di san Paolo che inviò le sue Lettere alle varie Chiese della prima era cristiana. 
   Il primo libro pubblicato dal titolo Lo que puede un cura hoy (Quello che può un parroco oggi) ebbe un successo mondiale, venne stampato in ben venticinque edizioni e tradotto in varie lingue. Possiamo raggruppare la sua produzione in sette grandi categorie a seconda del tema trattato e dei destinatari: ai sacerdoti, sul seminario, sull’Eucaristia, per l’opera dei Sagrarios-calvarios (Tabernacoli-calvari), sull’apostolato, pedagogico-catechetici, e su vari temi di spiritualità. Tra le varie opere ricordiamo: Mi comunión de María, Aunque todos, yo no, Qué hace y qué dice el Corazón de Jesús en el Sagrario, Granitos de sal e alcune altre a carattere devozionale e di ampia diffusione popolare. 
   Non era solo con queste pubblicazioni che voleva portare il suo contributo all’evangelizzazione, ma anche attraverso la collaborazione con il quotidiano «Correo de Andalucía», fondato nel 1899 dall’arcivescovo di Siviglia, il beato Marcelo Spínola y Maestre, per dare vita a una stampa che non fosse avversa alla Chiesa. A sua volta, nel 1907 fondò la rivista «El Granito de Arena» («Il Granello di Sabbia»).  
   Oltre alla penna, don Manuel portò avanti un progetto educativo di grande importanza. Come già aveva fatto quando era arciprete di Huelva, adesso che era diventato vescovo, continuò ad aprire nuove scuole e a promuovere l’insegnamento del catechismo. Contribuì personalmente alle opere sociali in favore dei poveri e dei lavoratori disoccupati. Appena veniva a conoscenza di una sciagura occorsa in qualche parte della sua diocesi, immediatamente correva per consolare, sostenere e portare aiuto effettivo. Accadde così durante un terribile incendio che devastò la zona della Aduana, nella notte dal 25 al 26 maggio 1922. 
   Per conseguire una migliore formazione del clero inviò alcuni seminaristi a studiare a Roma e a Comillas. 
   Vista la felice esperienza delle Marie, individuò la necessità di fondare una congregazione religiosa femminile che lo sostenesse nello sforzo di diffusione del culto eucaristico e rendesse più stabili le opere già avviate. Così il 3 maggio 1921 dette vita alla congregazione delle suore Marie Nazarene, oggi chiamate Missionarie Eucaristiche di Nazaret. Al numero 3 di via Marqués de Valdecañas, in un modesto appartamento, alcune donne appartenenti al gruppo delle Marie si riunirono per vivere in comunità. Dopo la semplice promessa, iniziarono con un corso di esercizi spirituali. Dalle Marie come il più prezioso frutto era nato un istituto religioso. Perché il riferimento a Nazaret? Per molteplici motivi, tra i quali quello per cui, come egli stesso spiegava: «Nazaret significa fiore, ma essendo fiore e conservando gli uffici indicati, esso, preferiva vivere come radice che desse succo senza produrre rumore né sperare nulla. Come Gesù nella sua vita di Ostia!». Inoltre, secondo le intenzioni del fondatore, Nazaret «è l’apprendistato della vita da ostia». Così ogni casa sarà chiamata Nazaret a motivo «della vita nascosta e di preparazione che si deve condurre in essa». Poi, rivolgendo lo sguardo a Dio scrisse: «Cuore di Gesù, che il tuo Nazaret sia scuola per apprendere a parlare come te nel vangelo e a stare zitti come te nel tabernacolo. Madre Immacolata, chiedi allo Spirito santo che sia il Maestro di questa scuola».   
   Il santo voleva che le Missionarie Eucaristiche riflettessero le stesse virtù delle tre donne del Calvario che seguirono Gesù fino alla fine, con fedeltà, senza mai abbandonarlo. Voleva fossero coraggiose, senza remore, né calcoli umani. Ogni comunità sarebbe stata una nuova Nazaret, dove in compagnia di Maria, la Madre di Gesù, queste donne avrebbero riprodotto lo stesso ambiente che si viveva nella Sacra Famiglia. Le suore sarebbero state come semi di quel fiore che Nazaret rappresenta. Come Gesù nel silenzio e nel nascondimento, avrebbero fermentato l’umanità con la ricchezza della carità. Il loro modello sarebbe stato Gesù che si è donato interamente senza riserve per il bene dell’uomo. Consacrate a Cristo avrebbero vissuto in continua adorazione del Figlio di Dio che ha voluto rimanere presente in tutte le chiese della terra. Avrebbero unito contemplazione e azione, andando verso i bisogni dei fratelli, in particolare dei più poveri, degli abbandonati, dei derelitti per portare loro non solo la carità, ma il Pane di Vita, del quale ogni uomo ha consapevolmente o meno bisogno. Il fondatore le volle vere e proprie missionarie per portare al mondo la buona notizia dell’Eucaristia. E una volta fatto conoscere il messaggio eucaristico, avvicinare gli uomini a Gesù presente in tutti i tabernacoli. Se all’inizio, provenivano dalle fila delle Marie, come la confondatrice, María Antonia González, a poco a poco, la congregazione accolse giovani di ogni estrazione sociale e provenienza. Mentre progressivamente le comunità delle Missionarie si diffondevano per la Spagna, nel 1930, il santo affidò alle suore anche l’amministrazione della rivista ed editoriale «El Granito de Arena» («Il Granello di Sabbia»).  
   Nel 1932 pensò anche a un istituto secolare e fondò le Marie Ausiliarie Nazarene (oggi Missionarie Eucaristiche Secolari di Nazaret). Nel 1939 volle anche vi fosse una sezione di aspiranti minori per la gioventù. 
   Tutte le realtà fondate dal santo attualmente sono state integrate nella grande Famiglia eucaristica riparatrice (Fer): per i bambini esiste la Riparazione infantile eucaristica, per i giovani la Gioventù eucaristica riparatrice, per gli adulti l’Unione eucaristica riparatrice, per le religiose le Missionarie Eucaristiche di Nazaret, per le laiche consacrate le Missionarie Eucaristiche secolari e per i sacerdoti i Missionari Eucaristici Diocesani. 
   A proposito dell’Unione eucaristica riparatrice, il santo ne tracciò il programma modulandolo sul motto: «Al maggior abbandono di tutti gli altri, più compagnia propria». Il principale obiettivo era di «dare e cercare, organizzata e permanentemente, al Cuore di Gesù Sacramentato, riparazione del suo abbandono (esteriore e interiore) di messa, comunione e presenza reale, per la compagnia di presenza, compassione, imitazione e fiducia. A mettere queste due parole: tabernacolo e abbandono, la presenza più perenne dei vostri corpi e delle vostre anime, la compassione più sentita con i sentimenti del Cuore di Gesù Sacramentato, l’imitazione più fedele della sua vita eucaristica e la fiducia più  devota nel suo amore misericordioso! Che quando il dardo dell’abbandono va a conficcarsi nel tabernacolo, si veda spinto a una di queste due cose: o a retrocedere perché voi, gli uomini del tabernacolo, non lo lasciate passare, o se ciò non potete, a giungere al tabernacolo gocciolando sangue dai vostri cuori, lacrime dai  vostri occhi ed essenza dalle vostre vite». La presenza orante e silenziosa davanti al Santissimo Sacramento ha il potere di cambiare completamente le anime e di modellarle sull’esempio di Gesù che si donò interamente al Padre per la salvezza dell’umanità. Fare compagnia a Gesù Sacramentato è quindi una grazia che Dio offre alle sue creature, pertanto, ancora una volta l’uomo è debitore nei confronti del Signore. Riparare è perciò un gesto di compassione e di carità ma che produce frutti di bene non solo per le anime, ma in primo luogo per quanti compiono questa azione. 
   Il santo poi descrisse nei particolari quello che l’Unione eucaristica riparatrice rappresenta per la comunità cristiana: essa riconosce «come il maggior male di tutti i mali nell’ordine pratico e causa a sua volta delle peggiori offese a Dio e dei più gravi danni alla Chiesa, alla società, alla famiglia e alle anime, l’abbandono del tabernacolo, e contro di esso viene a lavorare con tutti i mezzi che lo zelo gli detti. Secondo il santo Vangelo, le Marie accompagnarono il Signore: servendolo, ungendolo, piangendo e lamentandosi e stando ai piedi della croce quando tutti l’abbandonarono». Questo doveva essere il programma di vita anche delle Marie, secondo il Fondatore: «Servire il Cuore eucaristico abbandonato o solitario con la comunione e visita ogni giorno e con propaganda per cercare altre comunioni e visite per lo stesso tabernacolo». Quella particolare attenzione a non fuggire, a rimanere vicini a Gesù  quando tutti l’hanno abbandonato per paura o vigliaccheria ricorre sempre negli scritti di don Manuel. La fedeltà al Signore crocifisso, percosso, umiliato, morto e sepolto è la virtù che deve caratterizzare la vita delle Marie e di quanti vogliono riparare le tante ingratitudini da parte degli uomini nei confronti di Gesù.     


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 83-89)

A Málaga (Vita di San Manuel González, 5)

   Nell’estate 1915, si aprì una nuova stagione della sua vita: mentre si trovava in vacanza per alcuni giorni presso la famiglia Escribano a Las Navas del Marqués, in provincia di  Ávila, ricevette una lettera da parte del nunzio apostolico in Spagna, l’arcivescovo Francesco Ragonesi (1850-1931). Lo informava che lo avrebbe proposto come vescovo ausiliare della diocesi di Málaga. La notizia lo gettò in grande apprensione, perché non voleva assolutamente diventare vescovo, anzi, il solo pensiero lo metteva in agitazione. Partì, perciò, per San Sebastián dove si trovava il nunzio apostolico per esporgli i suoi dubbi e scongiurare la nomina. Ma non vi fu niente da fare. La decisione era stata presa. D’altronde, era già da un po’ di tempo che la nunziatura seguiva don Manuel. Era stato notato dall’allora nunzio apostolico, monsignor Antonio Vico (1847-1929), durante la III settimana sociale che si svolse nel 1908 a Siviglia. In quell’occasione, il santo aveva tenuto una conferenza sull’azione sociale del parroco. Ma a quel tempo, don Manuel aveva solo 31 anni, un’età ritenuta prematura per farlo diventare vescovo. 
   Dopo il viaggio a San Sebastián, rientrò a Siviglia e si incontrò con l’arcivescovo per informarlo del colloquio avvenuto con il nunzio apostolico. La cattedra episcopale di Siviglia era occupata a quel tempo dal cardinale Enrique Almaraz y Santos (1847-1922), il quale non si mostrò contento della preannunciata nomina, forse perché si era sentito scavalcato. Don Manuel, allora, spiegò che era stato costretto ad accettare, perché gli avevano detto che era volontà del Papa di nominarlo vescovo. Per dimostrare la sua buona fede, firmò un foglio in bianco e lo consegnò all’arcivescovo, dicendogli che vi avrebbe scritto la rinuncia immediata all’episcopato, qualora il cardinale non fosse stato d’accordo. Allora, l’arcivescovo comprese la sua buona fede e la sua umiltà e dette il beneplacito. 
   Ottenuto il consenso del cardinale, non restava che attendere la decisione ufficiale, che arrivò il 6 dicembre 1915, quando Benedetto XV lo nominò vescovo titolare di Olimpo e, al contempo, ausiliare di Málaga. Il giorno successivo ricevette il telegramma da parte della Santa Sede e, il 16 gennaio 1916, venne ordinato vescovo nella cattedrale di Siviglia dal cardinale Almaraz y Santos. A Huelva la sua nomina venne pianta come una sciagura, perché la sua parrocchia e la città avrebbero perso la sua preziosa presenza. Molti si preoccupavano anche per il futuro di tante opere intraprese. Cosa sarebbe stato di loro? Sarebbero state inevitabilmente abbandonate al loro destino? Tanti timori attraversavano le menti di quelli che fino ad allora avevano collaborato con il santo. 
   Da parte sua, don Manuel ripeteva che sarebbe stato il vescovo del tabernacolo abbandonato, come già ne era stato il parroco. Sarebbe stata questa la sua principale caratteristica che avrebbe impresso al suo ministero episcopale. Occorreva fare in fretta, perché la diocesi di Málaga richiedeva la sua presenza. Così, il tempo per congedarsi dai suoi amici, collaboratori, conoscenti e i ragazzi assistiti fu ridotto dal 20 gennaio all’8 febbraio. Dato l’addio alla sua parrocchia, non restava che organizzare l’ingresso ufficiale nella diocesi che il Papa gli aveva affidato. Accolto con tutti gli onori, il 25 febbraio, giunse a Málaga, dove incontrò l’anziano vescovo Juan Muñoz Herrera (1835-1919). La situazione che don Manuel trovò in diocesi non fu per niente facile: monsignor Muñoz Herrera per motivi di salute aveva lasciato il governo pastorale in mano dei suoi collaboratori. Come spesso avviene in questi casi, ognuno si era ritagliato un pezzetto di potere. Varie rivalità serpeggiavano tra i sacerdoti e il nuovo vescovo veniva a incrinare certe rendite e compromessi che facevano comodo a molti. Sorsero così immediatamente dei problemi e incomprensioni con i collaboratori dell’anziano vescovo che fecero di tutto per ostacolarlo. Neppure trovò comprensione e appoggio in monsignor Muñoz Herrera, che arrivò al punto di confinarlo in poche stanze del palazzo episcopale. La situazione era talmente difficile che don Manuel, il 9 gennaio 1917, decise di scrivere una lettera a monsignor Ragonesi, nella quale sottolineava che la coabitazione di due vescovi in diocesi e il conflitto che si era creato erano uno scandalo per la Chiesa e per le anime. Per questo, gli chiedeva il permesso di svolgere ministero itinerante, oppure, di presentare la rinuncia al governo pastorale. Il nunzio apostolico non voleva neppur sentire parlare di rinuncia da parte di don Manuel, pertanto lo lasciò libero di dedicarsi a tempo pieno al ministero pastorale in diocesi. Da parte sua, il santo, nonostante le ostilità e le difficoltà incontrate, rimase sempre internamente sereno e fiducioso nella Provvidenza divina che a suo tempo sarebbe intervenuta. 
   Visto l’invito del nunzio apostolico, le difficoltà incontrate in curia e il mancato appoggio di monsignor Muñoz Herrera, da quel momento decise di occuparsi della predicazione e della formazione dei sacerdoti. Si realizzava così il suo sogno: essere il vescovo dei tabernacoli abbandonati. Avrebbe svolto il ministero itinerante tra la gente, a contatto con il popolo, andando in cerca della pecorella perduta, sperimentando le fatiche e le gioie del ministero come un tempo, quando era semplice parroco. Avrebbe però annunciato la Parola di Dio con l’autorità di un successore degli apostoli per portare a tutti la misericordia e la grazia divina. Nel marzo 1916 cominciò la visita pastorale alle parrocchie cittadine che poi estese a quelle di tutta la diocesi. Ben conosceva come doveva svolgersi la vita nelle comunità e sapeva quali fossero le difficoltà, i problemi, le attese. Quando arrivava in una parrocchia, il suo interesse principale era che il Santissimo Sacramento avesse la degna lode e il giusto posto nella vita comunitaria e personale. Poi si occupava che venisse ben impartito il catechismo e vi fosse un’adeguata struttura scolastica per l’educazione delle nuove generazioni. 
   Mentre don Manuel continuava a girare la diocesi predicando ed esortando, monsignor Muñoz Herrera decise di ritirarsi a vita privata ad Antequera presso i suoi parenti. Fu così che il 20 gennaio 1917 la Santa Sede poté nominare don Manuel amministratore apostolico della diocesi.  Adesso, anche se non interamente, era  libero di dedicarsi al governo pastorale della comunità a lui affidata. In quel tempo, purtroppo, un grave dolore lo colpì: il 29 marzo morì suo padre. Solo la fede e la speranza lo sostennero dal punto di vista umano. Il 26 dicembre morì anche il vescovo Muñoz Herrera. Era venuto così a mancare l’ostacolo che gli aveva impedito fino ad allora di assumere completamente il governo della diocesi. Infatti, qualche mese dopo, il 22 aprile 1920, Benedetto XV lo nominò vescovo residenziale di Málaga. Come era abitudine al tempo, il nuovo vescovo offriva un fastoso banchetto per festeggiare la nomina. Egli, al contrario, preferì celebrare la messa e condividere il banchetto con circa 3.000 poveri. Un segnale di discontinuità e di semplicità rispetto ai precedenti episcopati e un modo per sottolineare l’importanza di occuparsi degli ultimi e dei più deboli. 
   Lo attendeva, come era ben abituato, un enorme lavoro pastorale, perché conosceva quanto la diocesi fosse piena di problemi e di contraddizioni. Per prima cosa, si occupò del clero e della sua formazione. Visitò chiese e cappelle e, come era sua caratteristica, zelò il culto eucaristico. Purtroppo, gli ex collaboratori del vescovo Muñoz Herrera non perdevano occasione per ostacolarlo e denigrarlo. Oltre a ciò, alcuni sacerdoti gli si opposero subdolamente e uno di loro sembra gli puntasse la pistola al petto. Una volta nel visitare una parrocchia trovò la chiesa quasi abbandonata. Chiese di parlare con il parroco, ma non volle riceverlo. Allora, prese il tabernacolo e se lo portò con sé in episcopio. 
   Molti episodi si potrebbero raccontare, ma quello che più lo faceva soffrire erano le calunnie che mai gli mancarono. Perfino alcuni canonici del Capitolo si misero contro di lui. In effetti, nel suo servizio ministeriale e pastorale stava andando a toccare rendite ormai acquisite da parte di alcuni esponenti del clero e ciò provocava la loro reazione. Arrivò perfino a destituire un parroco, cosa che gli procurò le ostilità dei suoi familiari. C’era chi lo accusava di essere intransigente, altri lo apprezzavano perché vedevano in lui il vescovo che si occupava veramente della diocesi e potava la vite perché desse più frutti. Da parte sua, don Manuel viveva tutte queste difficoltà offrendole a Dio, al suo Cuore, in espiazione e riparazione dei peccati e per il bene dei fratelli, in particolare dei sacerdoti. La croce era il suo pane quotidiano, ma aveva già messo in conto che così sarebbe stato, perché per assomigliare al Maestro doveva passare per la via dolorosa. Sapeva anche che il gregge a lui affidato non era sua proprietà, ma del Signore, egli si considerava solo l’amministratore che doveva rendere conto del suo operato. D’altra parte, l’essere vescovo, cioè successore degli apostoli, lo spingeva per primo a sacrificarsi senza sosta per il bene dei suoi fedeli e perciò ogni difficoltà, sofferenza od ostacolo li viveva come un’occasione per santificarsi. 
   Come sappiamo, fin dai primi anni della sua ordinazione aveva individuato nella formazione del clero uno dei punti deboli della comunità cristiana. Alcuni preti non erano assolutamente in grado di compiere un proficuo ministero pastorale, in quanto mal preparati e poco profondi spiritualmente. Per risolvere la situazione, il santo comprese che occorreva intervenire fin dai primi anni di formazione. Fu così che decise di costruire un nuovo seminario in sostituzione di quello fatiscente. Ciò avrebbe permesso di impostare una formazione più adatta ai tempi e di intervenire quanto prima per compiere una capillare azione vocazionale. Il problema da risolvere non era indifferente, se si considera che dal 1915 al 1918 dal seminario diocesano erano usciti solo 18 nuovi sacerdoti. 
   Per fondare un nuovo seminario occorrevano però notevoli risorse economiche per far fronte all’ingente spesa. Fu così che don Manuel ricorse immediatamente alla Provvidenza divina. Era sicuro che sarebbe intervenuta per aiutarlo a portare a termine il progetto. Si rivolse poi ad alcuni benefattori sui quali sapeva di poter contare e per dare l’esempio per primo versò pro costruzione del seminario i proventi incassati dai diritti d’autore dei suoi libri. Nella gara di solidarietà si distinse la duchessa di Nájera che donò una pietra preziosa. La vendita di questa gemma gli servì per dare inizio ai primi lavori. Da ora in poi, ogni raccolta di fondi sarebbe stata destinata alla costruzione del nuovo edificio. Con grandi speranze, la prima pietra venne posta il 16 maggio 1920. Occorsero quattro anni per veder completato il seminario e poter iniziare i primi corsi. Tante fatiche furono ricompensate: nel biennio 1924-1925 si iscrissero 210 seminaristi. La cappella venne inaugurata successivamente, il 21 aprile 1926. Don Manuel era molto contento di questa nuova fondazione e la considerava come il fiore all’occhiello della sua diocesi. Si preoccupava molto che gli alunni giungessero a essere un giorno sacerdoti secondo il Cuore di Cristo, devoti dell’Eucaristia e pronti a guadagnare le anime a Dio senza pensare al proprio interesse. Per questo, intervenne sul piano di studi e impresse la disciplina necessaria alla formazione. Purtroppo, i superiori del seminario si opponevano ai cambiamenti, perché erano ancora quelli nominati dal vescovo precedente. Fu così che dovette cambiare i vertici e volle che da quel momento in poi vivessero insieme con gli alunni cercando di ricreare il clima di una vera famiglia. Non mancava nemmeno chi l’accusava di aver sperperato del denaro inutilmente per questa costruzione. L’accusa principale era quella di aver voluto un edificio troppo sfarzoso. Altri criticavano il piano di studi che secondo loro era inadatto per una buona preparazione in teologia, al massimo poteva servire per insegnare il catechismo. Noncurante delle accuse, don Manuel si occupò in prima persona dei seminaristi, non perdeva occasione per andarli a trovare e conversare con loro, dava consigli, pregava con loro, curava le coscienze, predicava e vigilava sul buon andamento del corso di formazione. Ben presto il numero di seminaristi crebbe fino a trecento. 
   Dal punta di vista sociale, non mancarono critiche e opposizioni. Da un lato c’era la propaganda protestante che cercava di sottrarre fedeli alla Chiesa cattolica, dall’altro, l’attività dei massoni che volevano screditarlo e impedirgli di continuare a portare avanti le sue opere. Tuttavia, davanti a questa ondata di critiche, il santo non si perse mai d’animo. Gettò ogni preoccupazione nel Cuore di Gesù, al quale aveva affidato tutta la comunità diocesana, compreso il seminario e i suoi preti. Per meglio provvedere alla santificazione del clero e dei fedeli, nel 1918, fondò i Sacerdoti Missionari Eucaristici Diocesani, con lo scopo di riparare Gesù presente nei tabernacoli abbandonati e stare vicini ai sacerdoti. In quell’anno compì un viaggio nel nord della Spagna: visitò Madrid, Bilbao, San Sebastián e Barcellona. 
   Nel 1927 volle che sulla facciata della chiesa del seminario venisse esposta una immagine del Sacro Cuore rivolta verso la città. Era il segno più evidente che tutta la comunità era stata posta sotto la protezione del Cuore di Cristo. Allo stesso modo, zelò la devozione alla Vergine Maria, in particolare a Nostra Signora della Vittoria, patrona di Málaga. 


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 71-79)

domenica 26 novembre 2017

Le Marie (Vita di San Manuel González, 4)

   Il 4 marzo 1910 dette vita all’Opera delle Tre Marie, con lo scopo di formare un gruppo di fedeli sull’esempio delle tre donne di cui parla san Giovanni nel suo Vangelo, e che la tradizione identifica in Maria la Madre di Gesù, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Come queste donne seguirono Gesù nei tre giorni della sua Passione, morte e resurrezione e si recarono al sepolcro per ungerne il corpo, così le nuove Marie dovevano occuparsi di adorare l’Eucaristia conservata nei tabernacoli, specialmente in quelli più abbandonati. La cerimonia di fondazione si svolse nella cappella del Santissimo Sacramento della parrocchia di San Pietro. Don Manuel indicò i compiti che questa Opera doveva avere: «Provvedere di Marie adoratrici i tabernacoli deserti, convertiti oggi in Calvari per l’ingratitudine e l’abbandono dei cristiani. L’Opera si dedicherà, quindi, come al suo obiettivo essenziale e necessario, a cercare che non ci sia tabernacolo senza le sue tre Marie». 
   Nelle sue intenzioni, il Fondatore voleva che queste Marie fossero donne con una forte interiorità e con uno spirito di oblazione che le avvicinasse a Cristo. A questo proposito, scriveva: «La Maria sa che, per parlare del tabernacolo e del Gesù che dentro di esso vive, non dovrebbe avere più verbi tra gli uomini che quelli che significano amore grato: come credere, adorare, confidare, sperare, cercare, comunicare, imitare, amare, essere e fondersi di amore..., ma disgraziatamente, vede, ascolta e legge le dolcissime parole Gesù Sacramentato unite a queste amarezze e bruttezze: profanato, negato, dibattuto, rubato, pugnalato, sacrilegamente mangiato,  sputato e tutto questo varie volte e sempre, sempre in maggior o minore intensità quell’altra, se non tanto offensiva, al sembrare, come le altre più funestamente trascendentale: “abbandonato”!». Parole che non lasciano dubbi riguardo alla missione che hanno le Marie di imitare il Maestro, perché non basta solo far compagnia a Gesù nel tabernacolo, ma serve assimilarsi a Lui, pensare come Lui pensava, operare come Lui operava, comportarsi come Lui si comportava. Il Vangelo è il fondamento delle Marie, al quale si ispirano e guardano come al libro di vita da seguire. Il santo è stato molto chiaro al riguardo: «L’Opera delle Marie nacque nella fedeltà di Galilea, si battezzò nelle lacrime della strada dell’Amarezza, si confermò nel sangue del Calvario e si perpetuò nell’amore dell’Eucaristia... Già si nota quanto è antica la nostra Opera: per questa ragione non ammetto che mi dicano che sono stato colui che l’ha fondata, ma chi per misericordia di Dio ne ha sentito la mancanza...». Si riconferma ancora una volta che la missione delle Marie è strettamente legata all’annuncio evangelico. Infatti, trovano la ragione d’essere nel momento in cui Gesù iniziò la sua dolorosa passione che si concluse con la sua morte e risurrezione, come scriveva don Manuel: «L’ufficio delle Marie del Vangelo sempre esercitato e quello che potrebbe chiamarsi caratteristico, fu lo stare con Gesù, supplendo ciò che poteva mancare. Avere per il Maestro degli occhi che sempre lo guarderanno, degli orecchi che sempre lo ascolteranno, dei piedi che sempre lo seguiranno, un cuore che sempre batterà all’unisono con il suo, e questo più che per convenienza o svago propri, volentieri e per riparazione e gloria sua, ciò fu il grande ufficio delle Marie». Queste donne saranno le mani, i piedi, le membra di Cristo per portare agli altri la sua misericordia, per curare, amare, abbracciare, consolare, fasciare le ferite dell’anima e del corpo di tanti fratelli sparsi per il mondo. Dovranno farlo con quella donazione e generosità che contraddistinse le Marie del Vangelo, dovranno essere come loro, donne senza timore, che per servire il Maestro e in Lui tutti i fratelli, non si risparmieranno pericoli e fatiche. Ecco, perché guardando alle scene evangeliche, il santo esclamava: «Le Marie del Sepolcro! Delicatezze di amore, generosità della pietà, eroismo della fedeltà, valenza della debolezza, qui avete la vostra Opera e la vostra immagine! Così si ama! Così si ama fino alla fine! Se la storia dei miei uomini nella mia Passione può scriversi con l’“abbandono, fuggirono tutti!” del mio Evangelista, la storia delle mie Marie si dovrebbe scrivere con “Maria Maddalena andò di mattino prima dell’alba al sepolcro”...». Ecco svelato il ruolo delle Marie: amare con la caratteristica tipicamente femminile, con i dettagli dell’affetto, della tenerezza, della dolcezza. Con la stessa fedeltà che ebbe la Maddalena nel voler rimanere accanto al Maestro, perché aveva perduto il più grande amore della sua vita, Colui che solo aveva parole di vita eterna, senza il quale l’esistenza le era diventata improvvisamente senza senso. Da qui, la sintetica frase di don Manuel che definisce il compito di queste donne: «Tutto il vocabolario eucaristico si riduce a due parole: Compagnia! e abbandono! Niente più!». Due realtà opposte l’una all’altra: all’abbandono si contrappone la compagnia. Davanti alla desolazione, alla solitudine, alla mancanza di sostegno umano e di affetto, le Marie fanno compagnia, cioè offrono la loro presenza, la loro natura, il loro modo di amare e di stare insieme per vivere il mistero eucaristico. Tutto il resto è superfluo! 
   A poco a poco, l’Opera si diffuse nelle parrocchie della diocesi, della Spagna e poi in varie nazioni. Nel 1913 anche a Cuba venne fondato il primo gruppo di Marie. La prima Maria a diventare missionaria e a fare apostolato al di fuori di Huelva fu Mercedes López, che si spostò a Palos de Moguer. Visitò il Santissimo Sacramento, lo adornò con dei fiori, rimase in adorazione silenziosa, poi sollecitò la gente a fare compagnia a Gesù spiegando i benefici della devozione eucaristica. 
   Visto il rapido diffondersi di questa pia unione, il santo pensò di associare alle Marie anche il ramo maschile. Gli erano rimasti impressi i racconti evangelici in cui si narra che san Giovanni, il discepolo prediletto, era sempre stato vicino a Gesù. E’ stato lui che, ai piedi della croce, ha accolto la Vergine Maria come la più preziosa eredità lasciata dal Maestro. Questa fedeltà a Cristo fino alla fine davanti alla solitudine e all’abbandono del Calvario lo colpì profondamente. Fu così che poco tempo dopo le Marie, fondò i Discepoli di san Giovanni, perché anche loro si mostrassero fedeli amici di Gesù quando tutti gli altri lo avevano abbandonato. Il primo gruppo era composto da ventidue giovani che si impegnavano a comunicarsi quotidianamente e a visitare il Santissimo Sacramento in spirito di riparazione. Nel gruppo dei Discepoli di san Giovanni coinvolse anche i seminaristi e i sacerdoti, che formarono i «giovanni sacerdotali» e i «giovanni seminaristi». 
   Poco più tardi,  pensò anche di coinvolgere i bambini in questa attività eucaristica e fondò il gruppo I Giovannini, che poi cambiò in Bambini riparatori o Riparazione infantile eucaristica. Coinvolse anche questi ragazzi per risvegliare la pratica cristiana tra la gente. Radunò una banda giovanile e la mandò in giro per la città con degli striscioni con sopra scritto: «Cristiani a messa; lo comanda Dio!».
   Era talmente convinto che la santità si raggiunge solo se uniti a Cristo e alla fonte della grazia che si trova nel suo Corpo e nel suo Sangue che ogni anno rendeva noto il numero di comunioni distribuite nel suo apostolato. Compiva tutto tenendo presente la volontà del suo «Amo» («Il Padrone»), come chiamava con affetto e riverenza Dio. Di pari passo all’attività pastorale andavano anche le opere caritative ed educative a favore della gioventù. Nei giorni 1° e 2 aprile 1911, l’arcivescovo di Siviglia benedisse e inaugurò la chiesa e le scuole della colonia del Polvorín, che nel 1914 vennero affidate alle suore della Compagnia di Santa Teresa, fondate dal beato Enrique de Ossó y Cervelló (1840-1896). 
   Il 27 novembre 1912, accompagnando l’arcivescovo di Siviglia a Roma che doveva ricevere la berretta cardinalizia, ebbe la gioia di poter incontrare Pio X, al quale spiegò la sua opera eucaristica e quanto stavano facendo le Marie nelle parrocchie e nelle chiese abbandonate della Spagna. 
   Si interessò anche a quello che avveniva a livello ecclesiale nazionale alzando lo sguardo oltre la sua parrocchia e l’arcidiocesi. Partecipò all’assemblea di Azione sociale cattolica che si svolse a Granada e nel 1913 al congresso catechistico nazionale di Valladolid. In quell’anno compì un viaggio sulle orme di santa Teresa di Gesù: Salamanca, Alba de Tormes e Ávila. Purtroppo, il 16 gennaio 1914 un grave lutto lo colpì: la morte di sua madre, alla quale era molto legato.
   Tanta attività pastorale e caritativa non lo distolse dall’attenzione alla sua parrocchia. Il suo zelo lo spinse a spendersi interamente per i suoi fedeli. Sostava nel confessionale in attesa di qualche penitente. Predicava anche più volte al giorno e insegnava il catechismo a quanti più ragazzi poteva. Senza dimenticare le visite ai malati, ai poveri e agli anziani abbandonati. In occasione di alcune tragedie avvenute in città e nei dintorni si premurò di far avere beni e viveri a quanti erano stati colpiti dalle calamità. Si occupò anche delle vocazioni al sacerdozio e aprì una sorta di seminario minore in un luogo di fortuna: nella stanza delle campane della chiesa di San Pietro. Fondò anche l’Opera di vocazioni del Sacro Cuore di Gesù. Dove trovare i fondi necessari per le tutte queste attività? Don Manuel organizzava regolarmente delle lotterie e invitava chi aveva possibilità economiche a condividerle con gli altri. Tanto zelo provocò la reazione degli ambienti anticlericali che lo calunniarono, lo minacciarono e giunsero perfino a volerlo morto. Il clima era talmente surriscaldato dal punto di vista sociale, che un giorno gli si presentò in sacrestia un uomo armato di pistola con l’intenzione di ucciderlo. Mentre aveva l’arma puntata al petto, il santo non si perse d’animo, fiducioso in Dio, riuscì a far ragionare l’uomo, che desistette dalle sue intenzioni e si convertì. 
   Tutta la sua vita ruotò intorno al principio di voler «eucaristizzare» le realtà che lo circondavano, come scriveva al proposito: «Sono convinto  e persuaso che nell’eucaristizzazione della scuola, del pulpito, di centri di azione, dei procedimenti apostolici, di tutto il lavoro e degli orientamenti tutti della vita cristiana sta il summum della sua sicurezza, efficacia e prosperità, e questa persuasione di tal modo mi spinge e assorbe che, oggi per oggi, e Dio sia benedetto perciò, quando penso, dirigo, scrivo e respiro a questo solo va: quanto di scritti, opere, bambini, vecchi, uomini, donne e di quanto mi circondi o riguardi, germogli perennemente in un modo o nell’altro, e ognuno nel suo linguaggio, l’inno e cantico della fede, del riconoscimento e dell’amore al Cuore di Gesù Sacramentato». Leggendo queste parole, viene in mente la celebre frase paolina nella prima Lettera ai Corinzi: ricapitolare tutte le cose in Cristo. La spiritualità di don Manuel è quindi strettamente cristocentrica, riconduce ogni attività e pensiero al Salvatore. Niente sfugge di quanto è stato creato al desiderio di riportarlo interamente al Redentore.  La via più semplice per raggiungere questo obiettivo è quella di usare dei benefici e delle grazie che sgorgano dal Cuore eucaristico di Gesù, dal quale abbiamo ricevuto ogni pienezza. Non meraviglia, quindi, che il santo invitasse con fermezza a guardare senza indugi al modello del Buon Pastore per svolgere ogni attività apostolica. Anzi, era convinto che ogni battezzato dovrebbe ricalcare nella sua vita le stesse virtù e caratteristiche interiori di Gesù, soprattutto nell’abbandono al Padre e nella fiducia completa nella sua Parola. Il santo poi spiegò nei dettagli cosa intendesse per «eucaristizzare»: «L’azione di tornare a un popolo pazzo di amore per il Cuore eucaristico di Gesù». Ecco qui il segreto del discepolo di Cristo: amare Dio e i fratelli. Senza questo aspetto fondamentale ogni sequela sarebbe vana. Volgere lo sguardo al Signore, tornare con il cuore contrito a Lui, riconoscerlo non solo come Maestro, ma come unico Salvatore dell’uomo è ciò che più di ogni altra cosa ogni cristiano deve tenere ben presente. Don Manuel in questa frase sottolineava anche un altro aspetto: non si  può essere discepoli separati, non si ama isolati dagli altri, ma si deve tornare a essere un popolo, cioè una comunità che ama all’unisono. Rientra in questo disegno l’eucaristizzazione di ogni realtà che ci circonda, a cominciare dal catechismo, al quale il santo attribuiva grande importanza. Scriveva a questo proposito: «L’eucaristizzazione di esso significa che quanto dica, faccia, dia, studi e preghi il catechista, tenda a risvegliare e sviluppare nel bambino la fede viva, il gusto e il senso della presenza reale di Gesù nella Sacra Eucaristia». Anche la catechesi, quindi, deve servire per ricondurre le anime a riconoscere e amare Gesù presente nell’Eucaristia. Occorre perciò approfittare degli insegnamenti della Chiesa per riscoprire quel tesoro di grazie che Dio ha voluto lasciare agli uomini sulla terra: la presenza viva di Cristo nel Sacramento dell’altare.


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 61-68)

sabato 25 novembre 2017

A Huelva (Vita di San Manuel González, 3)

   Il 1° marzo 1905, l’arcivescovo Spínola y Maestre lo nominò parroco economo della parrocchia di San Pietro in Huelva. Sarebbe stato il suo primo incarico di responsabilità dopo l’ordinazione sacerdotale. Con entusiasmo iniziò il suo ministero il 9 marzo e già dal 16 giugno divenne arciprete. All’inizio venne ospitato nel convento degli agostiniani, poi si trasferì in un modesto appartamento. Volendo però portare con sé i genitori scelse un altro locale più adatto alle sue esigenze. A Huelva trovò una situazione religiosa tristemente difficile. Il clima politico e sociale era teso e non di rado avvenivano aggressioni nei confronti dei sacerdoti. Gli anarchici fomentavano la rivolta e instillavano nella popolazione l’odio verso la Chiesa e i suoi rappresentanti. Erano gli anni in cui gli animi erano talmente accesi che bastava una scintilla per far scoppiare un tumulto. Inoltre, le idee radicali caratterizzavano il dibattito politico e tendevano a far approvare delle leggi che istituissero il divorzio, il matrimonio civile, i funerali laici. Ogni parvenza di religione cattolica doveva essere annientata. 
   In questo contesto così conflittuale, le masse operaie, specialmente di minatori delle vicine miniere di Río Tinto, venivano facilmente influenzate e manovrate secondo gli interessi dei grandi gruppi di potere. I politici di area repubblicana e liberale cercavano di portare avanti una campagna di diffamazione e di discredito nei confronti della Chiesa per diminuirne la presa sulla gente. Anche i protestanti, dalla roccaforte britannica di Gibilterra,  attaccavano con la propaganda la Chiesa per sottrarle quanti più fedeli. Erano ancora lontani gli anni dell’ecumenismo! 
   Don Manuel arrivò a Huelva carico di tanta buona volontà e si trovò di fronte delle sfide per niente facili da affrontare. Lo sosteneva la sua ricchezza interiore e la benedizione dell’arcivescovo Spínola y Maestre, il quale non era uno sprovveduto e sapeva bene chi aveva mandato in prima linea. Infatti, nonostante la giovane età, il nuovo parroco aveva già le capacità per esercitare il ministero sacerdotale in mezzo a conflitti così accesi. Visto il delicato momento in cui versava Huelva e il grande compito che l’attendeva, una proposta del vescovo di Léon, monsignor Manuel Sanz y Sarabia, lo avrebbe sottratto da tutte quelle traversie. Il presule, conoscendo le qualità di don Manuel, gli propose di diventare suo segretario e gli offrì il canonicato. Sicuramente, un altro sacerdote, davanti a quest’offerta così allettante e, soprattutto, giunta al momento opportuno, avrebbe accettato senza esitazione. Ma non don Manuel, il quale, si consultò subito con il suo arcivescovo. La risposta che ebbe fu chiara: se cercava onori e carriera doveva andare a Léon, se invece voleva conquistare anime a Dio il suo posto era a Huelva. Il santo non esitò un istante e decise di rimanere nella parrocchia di San Pietro. 
   Iniziò, quindi, il suo apostolato senza indugi e con grande zelo: volle che la chiesa rimanesse aperta tutto il giorno, perché chi voleva potesse entrarvi. Impostò tutta la sua giornata al servizio della parrocchia. Nei giorni feriali celebrava la messa alle 6.30 e la domenica alle 5.30. Cominciò a rimanere nel confessionale in attesa di qualche penitente e nel frattempo recitava l’Ufficio divino e adorava il Santissimo Sacramento. Vista l’aridità spirituale dei suoi parrocchiani, ricorse al Signore per chiedere la loro conversione e il mezzo più efficace lo individuò nell’Eucaristia. Non si risparmiò veglie di preghiera e di adorazione pur di far breccia nel cuore di tante persone. Implorò l’aiuto della Vergine Maria, di san Giuseppe e fece atti di riparazione al Sacro Cuore di Gesù. Tante suppliche ottennero la benedizione che smosse le anime a ritornare in chiesa. 
   A poco a poco il numero di fedeli che si riavvicinarono alla pratica cristiana crebbe e don Manuel poté rianimare le opere parrocchiali. Inoltre, diffuse la pratica della comunione spirituale e delle visite a Gesù presente nel tabernacolo. Era convinto che «a più comunioni, più vita cristiana». Per questo, non perse mai occasione di infondere tra la gente la devozione e l’amore all’Eucaristia, centro di tutto il suo apostolato. 
   Oltre alla preghiera e alla pastorale, don Manuel aveva a cuore la sorte di tanti ragazzi abbandonati e dei poveri che vagavano senza riparo per la città. Così come non mancava di visitare i malati e gli anziani della parrocchia. Il suo cruccio principale era di risolvere la drammatica situazione dei ragazzi per salvarli e sottrarli alla loro condizione di abbandono e di precarietà, visto che il vivere in strada li esponeva a grandi pericoli. «Salviamo le anime dei bambini»: diceva e tradusse in opere questo suo anelito. Per questo, amava fermarsi a parlare e a giocare con i giovani che incontrava, invitandoli ad andare a trovarlo in parrocchia. 
   Un episodio di irriverenza e di ignoranza nei confronti della fede cristiana colpì profondamente il santo e lo mosse ad agire più celermente. Il 20 gennaio 1906, durante la processione per la festa di san Sebastiano, patrono di Huelva, alcuni ragazzi apostrofarono i partecipanti al corteo e lanciarono improperi e perfino bestemmie. Don Manuel rimase turbato da tanta ignoranza in cui versava la maggior parte della gioventù e decise di aprire delle scuole cattoliche per compiere un’opera educativa capillare. In effetti, le strutture pubbliche esistenti erano ampiamente insufficienti e di scarsa efficacia. Inoltre, nel vuoto educativo statale si erano inseriti i protestanti e i laicisti che volevano diffondere le loro idee radicali tra i giovani poveri e abbandonati.  
   Don Manuel non perse indugi e individuò immediatamente i locali dove aprire la sua prima scuola. Nel quartiere di san Francesco c’era una chiesa quasi abbandonata, proprio davanti a una scuola laica. Chiese al nuovo arcivescovo, monsignor Enrique Alamaraz y Santos (1847-1922), il permesso di poterla restaurare. Radunò intorno a sé alcuni volontari e riuscì a trovare 5.500 pesetas necessarie per i lavori di adattamento. Il 17 novembre 1906, dopo vari interventi, poté ricollocare solennemente il Santissimo Sacramento nella chiesa e, il 25 gennaio 1907, l’arcivescovo in persona benedisse la sua riapertura al culto. Nel cortile interno, si inaugurò anche la scuola. Era solo la prima di una lunga serie, infatti, poco dopo ne venne aperta un’altra nel santuario di Nostra Signora della cinta, appena fuori la città, una nel quartiere del Polvorín, vicino al convento de La Rábida, su un terreno donato da un ingegnere inglese protestante impegnato nelle miniere di Río Tinto, e una nella Cuesta del Carnicero.  In tutte queste scuole riuscì a ospitare ben 1.000 ragazzi. 
  Le attività si moltiplicarono e nel 1908 riuscì ad allargare l’offerta ad altre categorie di persone: inaugurò le classi domenicali per le ragazze e quelle notturne per gli operai. Dove trovare le risorse per mandare avanti tante opere? Chiamò a collaborare alcuni giovani per l’insegnamento del catechismo e si avvalse di chiunque volesse aiutarlo. Fondò gli Angeli della parrocchia, dei volontari che si impegnavano a visitare i fedeli nelle case, promuovevano la partecipazione ai Sacramenti e diffondevano la pratica della consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore di Gesù.


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 53-57)

venerdì 24 novembre 2017

Formazione (Vita di San Manuel González, 2)

   Nell’aprile 1893 venne organizzato un pellegrinaggio a Roma, in occasione del giubileo episcopale di Leone XIII. Manuel vi partecipò con grande entusiasmo, perché nutriva una grande devozione e un filiale rispetto per il Successore di Pietro. Fin da piccolo aveva  pregato e offerto sacrifici per il Pontefice, nel quale vedeva la solida roccia su cui poggiava la Chiesa. Giunto all’età di 17 anni, venne chiamato alla leva militare. Riuscì però a trovare le 1.500 pesetas necessarie per venirne esonerato. Fu spinto a questa scelta per timore di perdere la vocazione sacerdotale, che considerava la cosa più preziosa che Dio gli aveva donato. In quell’epoca gli si presentò per la prima volta un’emicrania che l’avrebbe accompagnato fino al termine dei suoi giorni, facendolo soffrire enormemente.  
   L’11 maggio 1886, fece, con la più grande preparazione possibile, la prima comunione nella chiesa delle scuole di San Luigi e, il 5 dicembre dello stesso anno, ricevette il Sacramento della cresima, nel palazzo dell’episcopio, dalle mani dell’arcivescovo, il cardinale Ceferino González y DíazTuñón (1831-1894).  
   Negli studi Manuel si distingueva per essere molto brillante e i professori lo stimavano per l’attenzione e l’impegno profuso nelle materie. A quel tempo, i sacerdoti seguivano il piano di studi in vigore dal 1852, rielaborato dopo la firma del concordato tra Regno di Spagna e Santa Sede dell’anno prima. Era diviso in quattro anni di latino e umanistica, tre di filosofia, sette di teologia e tre di diritto canonico. La teologia insegnata era di tipo post-tridentino con ampi tratti apologetici. La morale era caratterizzata da rigore e da formalità giuridica, considerando ogni cosa nella casistica, fino ai minimi particolari.  
   In quell’ambiente formativo e intellettuale, Manuel plasmò la sua impronta sacerdotale. A quel tempo, il clima del seminario di Siviglia, che contava circa 350 alunni, dei quali 300 interni e 50 esterni, era caratterizzato da contraddizioni: da una parte vigeva il rigorismo e dall’altra la negligenza di molti insegnanti che avevano altri incarichi esterni da portare avanti. Spesso per mantenere la disciplina i superiori ricorrevano al metodo del castigo e della repressione. Questa scelta, unita alla severa impostazione dei corsi di morale, formarono dei sacerdoti con un forte aspetto spirituale, ma con tratti di rigidità che non solo imponevano a se stessi, ma anche ai fedeli. 
   Nel 1887, il seminario di Siviglia venne elevato a Università Pontificia. Fu così creato un nuovo piano di studi, nel quale vennero previsti cinque anni di teologia e tre di diritto canonico. Nonostante le carenze dell’insegnamento accademico e le difficoltà che Manuel dovette superare vista la sua precarietà economica, dal 25 al 29 settembre 1900, conseguì a pieni voti sia il baccellierato, sia la licenza in teologia. Il 5 luglio 1901 anche ottenne il dottorato. La sua carriera accademica non si fermò qui: nel 1903 conseguì anche il baccellierato e la licenza in diritto canonico con il massimo dei voti. Aveva faticato non poco per raggiungere quei risultati, considerando che durante le vacanze era solito fare da precettore in casa Ibarra per guadagnare qualcosa. Oltre a ciò, si iscriveva ai concorsi straordinari per veder di racimolare qualche soldo in più.   
   I suoi superiori e quanti lo conoscevano lo giudicavano un ragazzo aperto, ottimista, affabile, pieno di vita e gioioso. Era scherzoso, ma senza scivolare nel volgare. Sapeva parlare al momento giusto e rimanere in silenzio quando era necessario. A questo proposito, scrisse un libro dal titolo Gesù silenzioso, nel quale sottolineò l’importanza del silenzio nella vita del cristiano e della necessità di seguire l’esempio del Maestro. Due delle qualità più apprezzate del carattere di Manuel erano la semplicità e la sincerità. Era un tipo schietto, comprensivo, evitava le complicazioni e cercava di correggere con affabilità chi ne avesse bisogno. Era incrollabile nel portare a termine un incarico se aveva capito che quella era volontà di Dio. La sua obbedienza verso i superiori era esemplare, visto che in essi vedeva l’espressione del volere divino. 
   Purtroppo, in quel periodo, iniziò a presentarsi l’obesità che l’accompagnò per tutta la vita. Non che dipendesse dal troppo appetito, ma più probabilmente da un problema metabolico. Questa situazione, purtroppo, gli procurò non poca sofferenza, in quanto si sentiva a disagio durante la predicazione. Invitava, infatti, alla misura e alla moderazione, invece il suo aspetto faceva pensare che egli facesse proprio il contrario di quello che chiedeva agli altri. Tuttavia, la causa di questa disfunzione non era per niente imputabile al comportamento alimentare del santo che era assolutamente parco e sobrio nel mangiare. 
   Di pari passo ai successi accademici andava la formazione al sacerdozio. Era un alunno modello: partecipava alla prima messa mattutina, sostava ore in adorazione del Santissimo Sacramento e recitava spesso il Rosario. Cercava di imitare l’esempio dei grandi santi di cui leggeva le biografie e considerava i consigli dei direttori spirituali come la via da seguire per raggiungere la santità. 
   Il 14 aprile 1900, come era consuetudine a quel tempo, ricevette la tonsura e gli ordini minori, nella cappella del palazzo episcopale dal beato arcivescovo Marcelo Spínola y Maestre (1835-1906). Il 1° giugno dell’anno successivo, dopo aver seguito il corso di esercizi spirituali, ricevette il diaconato da monsignor Antonio Cabal y Rodríguez (18351908), vescovo titolare di Lystra. Il 21 settembre 1901, nella cappella del palazzo episcopale, venne ordinato sacerdote dall’arcivescovo Spínola y Maestre. Il 29 seguente, celebrò la sua prima messa nella chiesa del collegio dei salesiani. Da quel giorno, per rispetto al sacerdozio, smise definitivamente di fumare. Dopo l’ordinazione, nel febbraio 1902, l’arcivescovo gli affidò il suo primo incarico: una missione a Palomares del Río, un paesino a sud di Siviglia, al di là del Guadalquivir. Questa esperienza pastorale lo segnerà tutta la vita. Inconsapevolmente andò incontro alla rivelazione di quella che sarebbe stata la sua vocazione da seguire per tutta la vita. Il viaggio per raggiungere il paese non fu affatto comodo: dopo aver attraversato il Guadalquivir con un vaporetto, proseguì a dorso di un asino, perché non vi era altro modo per giungere a destinazione, visto l’isolamento. Appena arrivato, si rese conto che la popolazione aveva smesso di frequentare la chiesa e disertava la messa domenicale. Il suo più grande rammarico fu quello di vedere il Santissimo Sacramento abbandonato completamente dalla gente. Nessuno che visitasse la chiesa, figuriamoci qualcuno che trascorresse del tempo in adorazione. Sentì con profonda tristezza quella solitudine di Gesù come fosse la sua e nacque in lui il desiderio di fargli compagnia. Da quel momento, diventò l’apostolo dei tabernacoli abbandonati. Sarà questa la sua missione che perseguì per tutta la vita. Era stato un vero shock per quel giovane pretino fresco di seminario trovarsi davanti alla dura realtà in cui versava quella parrocchia. Ma non era la sola, anche in moltissime altre il Santissimo Sacramento era dimenticato e abbandonato.   
   A distanza di tempo scriverà di questa esperienza nel piccolo borgo di Palomares del Río: «Di me so dire che considero uno dei maggiori benefici che il Cuore di Gesù mi abbia fatto nella mia vita, e me ne ha fatti tanti e tanti grandi!, l’avermi richiamato l’attenzione su questo male dell’abbandono del tabernacolo e fattomelo conoscere tanto bene in sé e nelle sue conseguenze che già molto tempo fa consacrai tutto il mio sacerdozio, come ora il mio episcopato, a lavorare,  gridare e protestare in tutti i modi possibili contro questo perniciosissimo male, principio e motivo di tutti gli altri mali sociali, domestici e individuali». Da allora in poi, tutta la sua attività pastorale ruotò intorno al bisogno di dare e cercare compagnia a Gesù abbandonato nei tabernacoli. Sentiva questa necessità come un dovere ineludibile, come una chiamata, una missione e un incarico che Cristo gli aveva ispirato e affidato. Tutto caratterizzato da un’impronta riparatrice che segnerà per sempre la sua spiritualità sacerdotale ed episcopale, come scriverà anni dopo: «Non voglio predicare alle genti, né catechizzare i bambini, né consolare i tristi, né soccorrere i poveri, né visitare i popoli, né attrarre cuori, né perdonare peccati contro Dio o ingiurie contro di me, piuttosto per togliere al Cuore di Gesù Sacramentato il grande dolore del suo abbandono e per portargli il dolce regalo della compagnia delle anime. Io non voglio essere il vescovo della sapienza, né delle attività, né dei poveri, né dei ricchi, io non voglio essere più che il vescovo del tabernacolo abbandonato. Per i miei passi non voglio più che un cammino, quello che porta al tabernacolo, e so che andando per questo cammino incontrerò affamati di molte classi, e li sazierò di ogni pane, scoprirò bambini poveri e poveri bambini e mi avanzeranno il denaro e le risorse per aprire scuole e rifugi per rimediare alla loro povertà, mi incontrerò con tristi senza consolazione, con ciechi, con sordi, con invalidi e perfino con morti dell’anima o del corpo, e farò discendere su di loro la gioia della vita e della salute. Io non voglio, io non bramo altra occupazione per la mia vita di vescovo che quella di aprire molte scorciatoie a questo cammino del tabernacolo. Scorciatoie tra questo cammino e i laboratori e le fabbriche degli operai, e le scuole dei bambini, e gli uffici degli uomini d’affari, e i musei e centri dei dotti, e i palazzi dei ricchi e i tuguri dei poveri.    
   La permanenza a Palomares del Río da una semplice missione si trasformò, quindi, in un progetto di vita. Intanto, l’arcivescovo cominciò con l’affidargli alcuni incarichi: l’8 febbraio 1902, lo nominò anche cappellano dell’ospizio per anziani abbandonati di Siviglia. L’11 seguente iniziò a celebrare la messa nella cappella delle Piccole suore dei poveri. Prese sul serio il suo ministero e si recò spesso dagli anziani per catechizzarli, confessarli, consolarli e rallegrarli con il suo buon umore e con il racconto di barzellette. Cercò sempre di essere presente al capezzale dei morenti e di quanti soffrivano, superando anche le difficoltà che comportava trovarsi ad affrontare situazioni di disagio ed estrema povertà. Nel settembre 1902 iniziò la sua attività di predicatore e per questo girò per alcune parrocchie dell’Andalusia. In particolare, venne chiamato a Villalba del Alcor per la festa della Vergine del Carmelo e due anni dopo, a Huelva per la novena del Sacro Cuore.


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 43-49)

giovedì 23 novembre 2017

I primi passi (Vita di San Manuel González, 1)

   Siviglia nella seconda metà dell’Ottocento era una città dalle mille contraddizioni. Povertà e ricchezza vivevano una al fianco dell’altra. Dello splendore e del prestigio che la città rivestiva nel Secolo d’Oro per essere stata il centro del commercio con le colonie spagnole e la più importante metropoli del regno rimanevano dei ricordi e delle vestigia. Ma la dura realtà, in quello scorcio del XIX secolo, era ben altra. Periodicamente, la popolazione veniva colpita da epidemie. La grande maggioranza viveva al limite della povertà e, nonostante un ceto artigianale e commerciale importante, non mancavano le crisi e i problemi economici. 
   E’ in questo contesto storico che, il 25 febbraio 1877, nacque Manuel González García. Terzo dei cinque figli del matrimonio tra Martín González Lara e Antonia García Pérez. Venne battezzato, il 28 febbraio successivo, nella parrocchia di San Bartolomeo con i nomi di Manuel Jesús de la Purísima Concepción e Antonio Félix de la Santísima Trinidad. 
   Era venuto alla luce in una famiglia semplice, profondamente religiosa e attaccata alle tradizioni. In casa si recitava ogni giorno il Rosario, al mattino e alla sera non mancavano le preghiere in comune, come l’Angelus e il suffragio per i defunti. La madre, in particolare, era una donna molto pia e partecipava ogni mattina alla messa. Purtroppo, la situazione economica familiare non era per niente florida. I genitori si guadagnavano il pane con il lavoro quotidiano: la madre era sarta e il padre faceva il falegname nel collegio cittadino dei salesiani.  Nel 1875 erano stati costretti a immigrare a Siviglia da Antequera, un borgo in provincia di Málaga, proprio in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita.  
   Tanta povertà era compensata dalla fiducia nella Provvidenza di questi genitori che si amavano e riconoscevano nel Signore la loro forza. Pur nelle ristrettezze economiche, infatti, erano convinti che i figli fossero una benedizione e non un problema e così, a poco a poco, la famiglia crebbe di numero. Educarono la prole al rispetto di Dio e del prossimo. In questo clima semplice e religioso, Manuel acquisì una sensibilità particolare per le cose di Dio. Qualità che aveva appreso dall’insegnamento e dall’esempio di autentica testimonianza cristiana proprio dei genitori. Fin da piccolo aveva imparato a recitare il Rosario quando, alla sera, la famiglia si riuniva. Sorse in quel periodo la sua grande attrazione per l’Eucaristia. Dopo la prima comunione, non perse mai occasione per accostarsi al Sacramento, pur con i limiti che vigevano a quel tempo. Si appartava per rimanere in silenzio a meditare sul grande mistero di un Dio che si fa Corpo e Sangue nel pane e nel vino consacrati. Era anche molto devoto della Vergine Maria che considerava sua Madre e protettrice. Certamente, questo interesse per la religione non sfuggì ai suoi familiari. Notavano in lui una predisposizione per le cose di Dio non comune per un bambino di pochi anni.  
   Raggiunta l’età scolare, venne mandato a frequentare una scuola pubblica dove rimase qualche tempo. Poi venne trasferito in una seconda e in una terza e, infine, per interessamento dello zio sacerdote, venne iscritto al collegio «San Luis». Tanti cambiamenti di scuola fecero sperimentare al piccolo Manuel la diversa metodologia di insegnamento e i vari approcci all’educazione di maestri più o meno preparati. Questi trasferimenti gli saranno utili in seguito, perché aveva avuto la possibilità, sebbene indotta e non voluta, di sperimentare di persona come la preparazione del maestro influisca fondamentalmente nel processo educativo e nel successo o meno dell’istruzione. Trovandosi costretto a girare per varie scuole, comprese che per il bene dei fanciulli e del loro futuro, sarebbe stato utile un diverso metodo di insegnamento che fosse più rispettoso della dignità degli alunni e li aiutasse a inserirsi nella società, offrendo loro un futuro per sottrarli alla miseria e alla malavita.  
   All’età di 9-10 anni Manuel si presentava come un ragazzo alto, magro, con capelli biondi e occhi azzurri e con una voce vibrante e dolce. Veniva considerato un vero talento canoro. Nutrendo un grande desiderio di appartenere ai cantori della cattedrale, i cosiddetti «seises», chiese aiuto a suo zio per entrare nel collegio di «San Miguel», dove il Capitolo metropolitano curava la formazione dei bambini del famoso coro. I canonici vagliarono la richiesta di ammissione e lo ritennero idoneo per cantare, vista la sua dolce voce, l’amore che portava alla musica e l’udito molto sensibile. 
   Occorre sottolineare l’importanza dei «seises» per Siviglia e il ruolo che avevano per tutta la città e non solo per la comunità ecclesiale. Erano dieci bambini che facevano riferimento alla cattedrale, conosciuti per una danza sacra che eseguivano davanti al Santissimo Sacramento in tre occasioni dell’anno: nella solennità del Corpus Domini, nella solennità dell’Immacolata, e nel triduo di Carnevale. Questa tradizione risale al tempo del Rinascimento. I cantori o «seises» vivevano con il maestro di cappella e da lui ricevevano educazione e mantenimento, fino a quando nel XVII secolo vennero ospitati come alunni interni nel collegio creato dai canonici capitolari. Il collegio di «San Isidoro», conosciuto popolarmente con il nome di «San Miguel”, nel quale entrarono i primi «seises» il 1° gennaio 1636, era stato fondato nel 1633 per gli accoliti della cattedrale, e venne chiuso nel 1960. Al tempo in cui entrò Manuel era ancora all’apice del prestigio. Era, quindi, senza dubbio un onore entrare in quel collegio, e molti avrebbero fatto carte false per essere ammessi, ma al piccolo interessava soprattutto poter cantare e ballare nella solennità del Corpus Domini davanti al Santissimo Sacramento, il suo unico amore! 
   Dopo tanta preghiera e riflessione, ben presto nacque in lui il desiderio di diventare sacerdote. Ne parlò con il parroco e trovò conferma al suo desiderio. Il sacerdote gli preparò la lettera di presentazione e di buona condotta per essere ammesso all’esame di ingresso nel seminario. Il suo ardente zelo per bruciare le tappe e diventare prete lo spinse a iscriversi all’esame nel Centro diocesano senza nemmeno avvertire la famiglia della sua scelta. Ma il piccolo aveva fretta, sentiva dentro di sé la chiamata del Signore a seguirlo più da vicino e non voleva perdere tempo. D’altra parte, la sua vocazione non era un fuoco di paglia, ma affondava le radici fin dalla tenerà età e si era fortificata dall’esempio dei genitori e di quanti lo circondavano. Senza dimenticare la vicinanza e la familiarità con una comunità particolarmente incline all’espressione religiosa. 
   Grande rammarico e sorpresa sorsero nei genitori quando Manuel si presentò in casa con la notizia di essere stato ammesso alla prova per entrare in seminario. Sinceramente, erano rimasti male, perché temevano si trattasse di un’infatuazione di un bambino e che forse tutto si sarebbe risolto in un capriccio temporaneo. A questi timori non era estraneo il problema economico, perché si doveva mantenere il figlio negli studi per lunghi anni, mentre si preparava al sacerdozio. Per questo, in un primo momento, i genitori non gli concessero il permesso. Oltretutto, erano rimasti delusi dal comportamento di un altro figlio che era prima entrato e poi uscito dal seminario. Nonostante le incertezze, vista la determinazione di Manuel, gli venne concesso il permesso di partecipare all’esame di ammissione. Il 19 settembre 1889 venne poi inviata all’arcivescovo l’istanza per l’ingresso in seminario. Il giorno seguente superò l’esame con buoni voti. Il 28 settembre, vista la «somma povertà» della famiglia, venne fatta richiesta per una borsa di studio e per l’esenzione dalle tasse di iscrizione e degli esami. Lo facilitò in questa petizione, l’essere inserito nei cantori della cattedrale. Era prevista, infatti, per chi apparteneva ai «seises» e voleva seguire gli studi ecclesiastici, l’assegnazione di borse di studio. L’esenzione dalle spese però lo obbligava a prestare servizio come domestico: si doveva occupare delle pulizie e rimanere a disposizione anche durante le vacanze.
   Manuel non si scoraggiò del lavoro che l’attendeva e iniziò i corsi nell’anno accademico 1889-1890, dando prova di grande serietà e di profondo impegno negli studi. Si era guadagnato anche la stima e il rispetto dei superiori per la sua obbedienza. Si dimostrò anche molto disponibile verso i suoi compagni di classe, ai quali prestava volentieri gli appunti delle lezioni. Si distinse per essere sempre di buon umore e aperto agli altri. D’altronde, il suo tratto scherzoso e gioviale lo rendeva affabile. Anche con i superiori riusciva a farsi ben volere ed aveva la capacità di ottenere molto di quello che chiedeva. Si racconta che una volta durante le vacanze pasquali desiderava andare a casa, ma non gli volevano concedere il permesso. Dopo varie richieste lo ottenne, ma durante la sua permanenza in famiglia si ammalò. Fu perciò costretto a rientrare due giorni dopo che le vacanze erano terminate e i superiori, credendo fosse una ripicca, per punizione gli imposero di svolgere servizio notturno per tre mesi.  
   Un’altra volta, si ammalò di febbre tifoidea al punto che si temette per la sua vita. In quell’occasione il suo confessore, don Pérez, non fece altro che confermare quello che era l’opinione di molti: se fosse morto sarebbe andato in Paradiso, perché non aveva mai perduto l’innocenza battesimale. A questo proposito, è importante ricordare come Manuel era molto attento alla virtù della castità. Si era perfino cinto il fianco con il cordone di san Tommaso – una devozione diffusa a quel tempo – per esprimere il suo desiderio di vivere casto. Virtù che lo caratterizzò fino agli ultimi istanti della sua esistenza.


   (Dal libro Come un chicco di grano. Biografia di san Manuel González García. A cura di Nicola Gori, El Granito de Arena 2016, pp. 35-40)