domenica 16 ottobre 2016

La prima globalizzazione

Il cardinale Amato parla delle sette canonizzazioni del 16 ottobre
La prima globalizzazione

di NICOLA GORI

   La chiamata alla santità è universale. Non fa differenze di razze, lingue, culture. È la prima e riuscita “globalizzazione” della storia. Ne sono prova i santi di ogni epoca e di ogni Paese che hanno testimoniato con la loro vita la fedeltà a Cristo anche a costo della vita. Ne parla il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, in questa intervista all’Osservatore Romano, alla vigilia delle sette canonizzazioni che Papa Francesco presiede in piazza San Pietro domenica 16 ottobre. 
   Un vescovo, tre sacerdoti, un religioso, una monaca, un laico: nei sette nuovi santi che Papa Francesco canonizza è rappresentato tutto il popolo di Dio. Qual è il filo conduttore di queste canonizzazioni?
   George Bernard Shaw, introducendo il suo testo teatrale su Giovanna d’Arco, riteneva giunto il tempo di studiare la storia fondandosi sui santi. Infatti la Chiesa arricchisce enormemente la storia dell’umanità con la celebrazione di uomini e donne, grandi e piccoli, che non solo sono testimoni credibili del Vangelo, ma sono anche autentici ed efficaci benefattori dell’umanità, da loro ornata con valori che costituiscono il dna dell’uomo, come la bontà, la lealtà, il perdono, l’accoglienza, il sacrificio, la condivisione, la compassione, la misericordia. Il filo conduttore, quindi, che collega i sette nuovi santi è proprio la santità, declinata nei diversi stati di vita cristiana. 
   In che modo la provenienza geografica di queste figure rispecchia l’universalità della Chiesa?
   Si tratta di persone che hanno vissuto la comunione con Cristo immersi profondamente nelle diverse culture del mondo. Teologicamente parlando, si potrebbe dire che i santi sono gli autentici protagonisti di ogni inculturazione della fede. È il Vangelo il dinamico laboratorio della formazione di un nuovo lessico cristiano, che esalta i valori positivi delle culture umane, purificandole da eventuali limiti e insufficienze. I santi riescono a vivere e a esprimere la loro identità evangelica nella loro lingua natale, anche se la loro grammatica e sintassi spirituale restano profondamente evangeliche. Così hanno fatto la nativa americana Kateri Tekakwitha, il daimyò giapponese Justus Takayama Ukon, il missionario indiano Joseph Vaz, il martire sudafricano Benedict Daswa, l’armeno Gregorio di Narek, il giovane filippino Pedro Calungsod. Essi appartengono radicalmente al loro popolo ma, allo stesso tempo, fanno parte integrante di quell’esercito sconfinato di beati di ogni tribù, lingua e nazione, che ora vivono nella città di Dio. Con la canonizzazione di sette santi vissuti in culture e aree geografiche diverse la Chiesa mostra che nessuna cultura umana è estranea all’annuncio di Cristo. Anni fa in una certa zona ecclesiale gli studiosi pensavano che in Asia non vi fosse più posto per Gesù e il suo Vangelo di salvezza. In realtà, come poi la storia ha dimostrato, con gli esempi del martire Devasahaiam Pillai, della clarissa Alfonsa Muttathupadathu e di Teresa di Calcutta, in tutte le culture, anche quelle più antiche e prestigiose, il Vangelo può essere accolto e vissuto in modo esemplare, perché esalta l’autentica umanità presente nelle culture del mondo. 
   Cosa lega la testimonianza dei due martiri, uno francese e l’altro messicano?
   Oggi più che mai è attuale la testimonianza dei martiri uccisi in odio alla fede. Nella canonizzazione di domenica, infatti, ci sono due martiri, uccisi in diverse circostanze storiche, vittime inermi e innocenti di feroci persecuzioni anticattoliche. Il primo, il francese Salomon Leclercq, apparteneva ai Fratelli delle scuole cristiane, educatori impegnati nell’istruzione e nella formazione umana e cristiana della gioventù. Fu martirizzato nel 1792, durante la bufera della rivoluzione francese. Il secondo, José Sánchez del Río, è un adolescente messicano non ancora quindicenne. A tredici anni il ragazzo si unì ai cristeros, che si opponevano al regime antilibertario e anticattolico del tempo. Con coraggio non rinnegò la sua fede in Cristo anche sotto la minaccia della pena di morte.     Pur straziata dal dolore, la mamma, María del Río, lo sostenne fino alla fine. Fu assassinato il 10 febbraio 1928, dopo aver subito supplizi atroci. Con le piante dei piedi spellate fu obbligato a camminare per il paese sulla strada verso il cimitero. Di tanto in tanto gli chiedevano di rinnegare e di dire: «Muoia Cristo Re!». Ma egli rispondeva sempre: «Viva Cristo Re!», «Viva la Virgen de Guadalupe!».
   Ancora oggi i cristiani sono oggetto di discriminazione e di persecuzione. Cosa dire al riguardo? 
   «Sentinella, a che punto è la notte?» grida il profeta Isaia. È passata quella notte? Tanti segnali inquietanti ci avvertono che la notte non è ancora passata e che la strada dell’“umanizzazione dell’uomo” è ancora lunga e intrisa di lacrime. La barbarie è ancora tra noi e, oggi come ieri, si riveste di ipocrisia e di intolleranza. «Le tue sentinelle alzano la voce — aggiunge Isaia — per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai». I martiri canonizzati sono due di queste sentinelle, due di quelle voci che non taceranno mai e sempre squarceranno l’inganno, richiamando noi uomini distratti all’esercizio più difficile: quello della coerenza nel momento della prova. Abbiamo ancora bisogno di testimoni come loro. 
   Tra i sacerdoti spicca la figura del cura Brochero, tanto cara a Papa Francesco. Cosa può insegnare ai preti del nostro tempo?
   Il sacerdote argentino Gabriel Brochero o “el Cura gaucho”, come veniva familiarmente chiamato, era un sacerdote colto e santo. Il suo fecondo apostolato a dorso di una mula sgorgava dalla sua esperienza di Dio nutrita con la lettura assidua del Vangelo da lui conosciuto a memoria. Pur avendo concluso l’università di Córdoba con il titolo di maestro in filosofia, il suo linguaggio era semplice, non ricercato, fatto di parole ed espressioni locali, appartenenti al lessico popolare e facilmente comprensibili dai suoi fedeli. Questo linguaggio colloquiale, non accademico, aveva una precisa intenzionalità pastorale: far comprendere il Vangelo anche ai più deboli e incolti tra i suoi fedeli, che apprezzavano la sua originale lingua serrana. Il nostro beato aveva un vero dono delle lingue. La sua predicazione toccava i cuori, convertendo i peccatori più incalliti. Se a prima vista il Brochero poteva apparire privo di finezza, conoscendolo e vedendo la perfetta coerenza della sua vita con il Vangelo, si scopriva la sua nobiltà umana e la sua ricchezza spirituale. Come la recente beata argentina Mama Antula, anche il cura Brochero, imbevuto della spiritualità di sant’Ignazio di Loyola, diventò un araldo della diffusione del regno di Dio sotto la bandiera di Cristo. Lo stile dell’evangelizzazione brocheriana è caratterizzato dagli esercizi spirituali, bagno dell’anima, scuola delle virtù e morte dei vizi. Era convinto dell’efficacia degli esercizi spirituali per comunicare la luce della verità di Dio alle intelligenze e per far trionfare la grazia nei cuori più ribelli. Per questo organizzava molteplici turni, frequentati da fedeli sempre più numerosi. Predicava, confessava, dirigeva, assisteva gli esercitanti con grande premura. 
   C’è un aspetto sociale della sua santità?
   Anche il cura Brochero è un benefattore dell’umanità. La sua carità pastorale, infatti, mirava alla promozione integrale dei fedeli. Per questo si premurava di edificare scuole per l’istruzione dei giovani, di aprire strade, di scavare canali di irrigazione. Fece anche realizzare il tratto locale della ferrovia e costruire l’edificio della posta. Il benessere sociale per lui era importante come il benessere spirituale. Si interessava della giusta paga dei lavoratori, della richiesta di grazia per alcuni prigionieri. Per promuovere queste sue iniziative, si rivolgeva ai potenti, ai governatori e ai ricchi, mostrando loro che le opere sociali da lui volute avevano la finalità di rendere sempre più degna e più umana la vita dei cittadini. Aveva poi la bontà di ringraziare i suoi benefattori con lettere, con visite personali, con alcuni prodotti della zona, con parole sempre piene di gratitudine e di riconoscenza. A tal fine, ma anche per stimolare la generosità, pubblicava regolarmente sui giornali i nomi e i donativi ricevuti. I fedeli non restavano insensibili di fronte alla concretezza della sua carità. Un giorno ricevette in dono un’artistica medaglietta, con la scritta, da una parte, “Vangelo, scuole, strade”, e, dall’altra, “le signore di sant’Alberto al cura Brochero”. Fu talmente commosso e grato per questo gesto semplice, che legò la medaglietta alla catena del suo orologio, portandola con sé fino alla morte. 
   Tra i fondatori risalta l’apostolato eucaristico di Manuel Gonzalez García. Qual è la sua eredità?
   L’amore all’Eucaristia è il lascito più prezioso del suo apostolato. Il sivigliano Manuel González García è, infatti, chiamato il vescovo dei tabernacoli abbandonati. Era innamorato dell’Eucaristia e la sua persona, in continua adorazione del Signore, irradiava una energia spirituale che attirava e convertiva al bene. La sua esistenza fu piena di esperienze eucaristiche. Da piccolo Manuel faceva parte del celebre gruppo di ragazzi sivigliani, che per antica tradizione cantano e ballano davanti al Santissimo Sacramento. Sono chiamati “los seises”, perché sono sei piccoli cantori della cattedrale. Manuel era uno di questi angeli eucaristici. Una settimana dopo l’ordinazione sacerdotale don Manuel celebrò la messa nella cappella dei salesiani e da quel giorno, in segno di rispetto per l’Eucaristia, smise per sempre di fumare. Iniziò il ministero a Palomares del Rio. Qui, trovandosi in una chiesetta con un tabernacolo deserto, ebbe l’ispirazione di divenire l’apostolo dei tabernacoli abbandonati. L’Eucaristia diventò il motore del suo apostolato e le sue opere ebbero tutte una impronta eucaristica. Passava lunghe ore in adorazione del Santissimo Sacramento. Fu il promotore di varie iniziative eucaristiche, fra le quali la più importante fu la fondazione della congregazione delle missionarie Eucaristiche di Nazaret. Questo carisma eucaristico aveva una sua espansione concreta nella sua carità verso i bisognosi, soprattutto poveri e infermi. Visse con grande coerenza il suo ministero episcopale, soffrendo, in silenzio e in completa adesione ai disegni di Dio, incomprensioni e contrasti e realizzando quei valori che la grazia aveva fatto maturare nel suo cuore.
   Quale aspetto di Elisabetta della Trinità è ancora oggi attuale?
   Elisabetta della Trinità è una mistica molto nota anche al mondo accademico, attraverso la sua opera di alto contenuto spirituale. Le sue meditazioni del mistero di Dio Trinità, cuore del cristianesimo, sono di perenne attualità. Perciò anche Elisabetta della Trinità ha tanto da dire alle donne e agli uomini del nostro tempo, comunicando loro la realtà della presenza trinitaria nei nostri cuori. L’uomo, soprattutto il battezzato, è una realtà trinitaria, come figlio di Dio Padre, fratello di Cristo e tabernacolo dello Spirito Santo. Questo fu l’argomento della sua quotidiana meditazione e della sua eccezionale esperienza spirituale. 
   Gli altri due fondatori hanno dato vita a famiglie religiose. Qual è la caratteristica del loro carisma?
   L’esperienza della vita religiosa si innesta proprio in questa ricerca dell’essenziale. I due santi fondatori di famiglie religiose si distinguono, oltre che per la loro intensa spiritualità, anche per essersi messi in ascolto dei “segni dei tempi”. Sia Lodovico Pavoni sia Alfonso Maria Fusco furono instancabili apostoli della difesa e promozione dei bambini e dei giovani, soprattutto poveri ed emarginati. L’uno visse e operò nell’Italia settentrionale, l’altro nel meridione. Qualunque sia il contesto nel quale viviamo, la nostra vita cristiana si ispiri all’esperienza di questi santi, che liberamente aderirono a Cristo e condivisero pienamente i desideri e le scelte del suo cuore. Questi nuovi sette santi costituiscono sette esempi convincenti di quella umanità nuova voluta da Dio Trinità, annunciata da Cristo e formata dalla Chiesa, la madre santa del popolo santo di Dio.

(L'Osservatore Romano, 16 ottobre 2016, p. 7)

Cardinale Angelo Amato

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